domenica 7 agosto 2011

Eric Emmanuel Schmitt: “L’avarizia è un rifiuto della condizione umana”


Per il romanziere e drammaturgo, autore, tra gli altri, di La parte dell’altro e Ulisse da Baghdad, l’avarizia forvia l’uomo dalla corretta direzione della vita. Sola maniera di guarirne: leggere Aristotele, Seneca, Pascal e Nietzsche.

- Sulla scala dei peccati capitali, a che altezza piazzerebbe l’avarizia?


La piazzerei molto in alto, perché è un peccato dal quale ne scaturiscono molti altri. Gregorio Magno parlava dei “sette figli dell’avarizia”: il tradimento, la frode, l’inganno, lo spergiuro, l’inquietudine, la violenza e la durezza d’animo. L’avaro in effetti strumentalizza gli altri, ai quali nega la parvenza di umanità e che rappresentano solamente, ai suoi occhi, l’occasione di alimentare il suo vizio. L’avarizia porta a quello che considero il più grave dei mali: l’indifferenza.

- Istintivamente, quale figura reale o immaginaria le suscita la nozione di avarizia?

Uno zio, che era talmente avaro da pulirsi le scarpe sullo zerbino del vicino! Nella sua vita tutto era così. Freddo come la cenere, viveva ogni festa familiare come un’aggressione perché gli toccava “spendere” del tempo, “dare” un po’ della sua vita, e tutto ciò gli era insopportabile. Spesso lo dimentichiamo ma l’avarizia è anche spirituale e psicologica, oltre che finanziaria.

- L’avaro è una delle figure principali della letteratura e del teatro, da Plauto a Molière, passando per Shakespeare. Quali sono i personaggi che le sono rimasti più impressi?


Ce ne sono tre: L’Arpagone di Molière, Père Grandet di Balzac e Scrooge del Cantico di Natale di Dickens. Nessuno nel XX secolo, perché, a parte Zio Paperone, che difficilmente viene considerato un personaggio della letteratura, la figura dell’avaro diventa rara nei romanzi e nel teatro a partire dalla fine del XIX.


- Per quale ragione?

Gli scrittori sono il prodotto ed il riflesso della loro epoca. Ora, la fine del XIX secolo è marcata da due fenomeni concomitanti: la de-cristianizzazione della società e lo sviluppo del capitalismo industriale. Dal momento in cui le nozioni di compassione, generosità, carità ed elemosina si affievoliscono, la nuova struttura economica delle società moderne favorisce l’apparizione di persone che non vedono nel prossimo nient’altro che uno strumento di produzione e di arricchimento, una semplice forza-lavoro. L’avaro diventa sempre meno motivo di scherno o di denuncia perché nel mondo contemporaneo si banalizza. Questa tendenza altro non ha fatto che accrescere lo sviluppo di una certa forma di capitalismo prima e di mondializzazione poi. Sottolineo tra l’altro che l’avarizia oggi veste abiti molto chic, che hanno nomi altisonanti come ecologia, controsviluppo, rifiuto del mercantilismo.. ottime cause che possono servire facilmente da formidabili pretesti ideologici all’avarizia. Ma non bisogna essere ingenui: quando l’avaro rigetta il consumismo non si tratta di un gesto o di una postura politica, lo fa per pura regola d'interesse. Se consuma poco, è perché consumare gli costa. Se gli regalassero delle cose da consumare, lo farebbe senza complessi, forse anche aldilà del suo reale bisogno.

- Come lei stesso ha sottolineato, il cristianesimo è stato a lungo un grimaldello di denuncia dell’avarizia. Si pensi a Giovanni Crisostomo che riteneva che l’avaro “immola la sua anima” o alla magnifica enciclica di Pio XI, “Quadragesimo anno”..

Nella patrisitica cristiana possiamo menzionare anche San Tommaso d’Aquino che sosteneva di tutto ciò che teniamo per noi oltre le nostre necessità che si tratta di furto, usurpazione. Ma dobbiamo soprattutto e prima di tutto evocare la figura stessa del Cristo che incarna un Dio povero e suggerisce un’autentica morale di povertà. Allo stesso tempo, non si tratta di condannare il possesso di beni o la ricchezza. Questo possesso non è un male in sé, ci permette di vivere, di realizzarci, di aiutare gli altri, di partecipare alla costruzione di una società felice. E’ un certo utilizzo di questi stessi beni che può avverarsi colpevole.


- La denuncia dell’avarizia è altrettanto forte presso le altre religioni?

Sì, tutte le grandi religioni rigettano, per dirla alla Pascal, questo “perverso passatempo” che è l’avarizia, che ci distrae dalla reale posta in gioco della vita. Nel giudaismo, ad esempio, ricorre l’idea che ogni ricco debba trasformarsi in mecenate. Quando si ha successo materiale, si deve contribuire all’istruzione e all’educazione altrui. Bisogna rendere in termini di opportunità intellettive tutto ciò che si è guadagnato in termini di denaro. L’islam non è da meno, e non senza una sottile ironia: un proverbio musulmano dice che “il denaro è un rimedio a tutto, fuorché all’avarizia”.


- Nella sua carriera di romanziere e drammaturgo, si è mai fatto tentare dall’idea di mettere in scena la figura dell’avaro?

Mi è successo una volta e del resto si tratta dell’unico personaggio negativo delle mie opere! Appare in “Hotel dei due mondi” (Commedia, 1999, ndt). Non ha un nome ben preciso, si chiama “il Presidente” ed è un perfetto idiota roso dall’avarizia. Sul suo letto di morte ascolta i discorsi dei suoi eredi e capisce, con suo grande rammarico, di essere stato per tutta la sua vita nient’altro che il loro contabile nonché tesoriere. E’ una delle caratteristiche principali dell’avaro: considerare la morte come acerrima nemica perché lo rende generoso, suo malgrado. Da cui il rifiuto da parte degli avari di voler invecchiare. Questa ossessione della morte è una posizione metafisica vera e propria. Corrisponde ad un rifiuto di cambiamento, di trasformazione, una negazione dell’avvenire e del divenire. L’avaro preferisce cristallizzare le cose, pietrificare l’effimero, lottare contro il naturale movimento della vita. Rifiuta l’idea che tutto passa, si modifica, si trasforma. Davanti ad un cielo che cambia, un ruscello che scorre, un legno che si consuma, egli si preoccupa, si dispera. Rifiutando la fragilità della condizione umana, provvisoria, mutevole, l’avaro manifesta la sua debolezza. Il mistero di questa condizione può essere vissuto con angoscia o con giubilo: l’avaro la vive senza dubbio con angoscia, nascondendo questo suo sentimento dietro alla facciata del denaro.

- Che si tratti di Montaigne, Agrippa d’Aubigné, i testi biblici o Jerome Bosch, che nel suo quadro “I sette vizi capitali” la rappresenta come un giudice che tende la mano dietro la sua schiena, l’avarizia è spesso messa in contrapposizione con la giustizia. E’ d’accordo con quest’ idea?

Più precisamente, io l’opporrei alla liberalità. Ciò che dà valore al denaro è il fatto di poterlo spendere. Per l’avaro, il denaro deve essere trattenuto. Qui comincia la perversione. Una persona, nel corso della sua vita, si consuma e consuma ciò che ha guadagnato. L’avaro invece accumula. Allo stesso tempo è un grande collezionista di godimenti personali. Ritornando a quel mio zio, la sua giornata era carica di un’ infinità di piccole gioie. Per esempio, se il tempo era bello, sprizzava gioia da tutti i pori perché, potendo rincasare a piedi, risparmiava il biglietto del metrò. L’avaro si procaccia quindi una ventina di occasioni quotidiane di non spendere o di approfittare della generosità o dell’ingenuità altrui che sono per lui dei veri momenti di piacere. Ma è come Don Giovanni con le donne: la sua struttura mentale è nevrotico-compulsiva, è costretto continuamente a ricominciare perché ciò che crede di cercare non è in realtà ciò che cerca: dietro la ricerca del denaro si nasconde, mi ripeto, la negazione ed il rifiuto della vita nelle sue differenti tappe: nascita, sviluppo, invecchiamento, declino, morte. E’ perciò che, più avanza negli anni, più la sua avarizia si sviluppa: Già La Bruyère lo sottolineava: “l’avarizia è piuttosto un effetto dell’ età e del temperamento senile: i vecchi ci si abbandonano proprio come facevano ai piaceri durante la gioventù o all’ ambizione nell’età virile”.

- Come si diventa avari?

Spesso gli avari giustificano il loro comportamento (che non considerano come quello di un avaro ma piuttosto come quello di uno spirito ragionevole, economo) con un’ infanzia difficile o con il ricordo doloroso di un’esperienza familiare difficile. E’ una copertura, sovente. Si presentano come vittime del passato e temono di diventare vittime del futuro. A mio avviso, l’avarizia trae origine altrove ed in altre circostanze. Quando si prende coscienza della fugacità della nostra vita e di ciò che si possiede, ci sono differenti tipi di risposta. Si può comprendere ed ammettere che tutto è provvisorio e accettarne l’eventuale privazione, persino rallegrarsene. Si può anche considerare che niente appartiene a nessuno e diventare come Karl Marx o Arsenio Lupin. Ci sono poi invece quelli che decidono di attaccarsi saldamente alle loro cose, erigendo questo principio: non mi porteranno mai via ciò che ho. In effetti, il senso profondo di questa frase è: non mi porteranno mai via ciò che sono. L’avaro si procura l’essere attraverso l’avere, si costruisce una solidità ontologica, essenziale, attraverso il possesso. Ciò che tesorizza non è soltanto del denaro, è il suo essere profondo, è identità. Egli sogna in fondo di mettere la sua vita in cassaforte.

- Un elogio dell’avarizia è immaginabile?

Proviamoci: l’ avarizia comincia bene, in ogni caso, quasi come una virtù. Le sue fondamenta psicologiche affondano nell’esercizio della ragione: calcolo, previsione, rifiuto dei piaceri artificiali e materiali. Si fregia di nobili compagnie quali l’ intelligenza, la volontà, la saggezza. Ma quando questa legittima forma di preoccupazione economica degenera in forma di passione, tutto si guasta. I rapporti con gli altri e le attenzioni nei loro confronti sono soppressi e l’avarizia appare come una forma di dipendenza.

- Di malattia?


In un certo modo sì, l’ avarizia ha molti aspetti patologici.


- Ne conosciamo i sintomi e possiamo diagnosticarla ma possiamo curarla o guarirla?


Non conosco avari redenti. Ma, così come sono guarito io stesso, adolescente, dalla mia depressione, ascoltando Mozart che mi ha aperto gli occhi sulla bellezza del mondo, credo che si possa guarire l’avarizia attraverso delle letture filosofiche.


- Quali?


In primis Seneca e Aristotele, per la ricerca del giusto mezzo, il rifiuto dell’eccesso. Poi tutti i filosofi greci i cui testi dimostrerebbero all’avaro, che gode senza essere felice, che è possibile accedere ad una forma pura di felicità in questo piccolo mondo. Gli consiglierei anche un po’ di Nietzsche (a fine cura, direi) e “i Pensieri” di Pascal, che ci ricordano quanto la vita sia aleatoria e censurano la nostra condotta dal momento in cui si limita a delle pratiche utili soltanto a fuggire dalla nostra angoscia vitale, dal nostro faccia a faccia con la carne nuda dell’esistenza. E’ una lettura terrorizzante e consolante allo stesso tempo: ma del resto non è soltanto dopo che si è provato terrore che ci si può consolare? Il problema è che viviamo in un’epoca molle, che ha la pratica fin troppo facile dell’analgesico e preferisce fare ricorso alla chimica davanti ai problemi esistenziali. La gente è invitata a rifuggire ogni sentimento di sconforto mentre è solo da essi che si può trarre quel succo che chiameremo, eventualmente, saggezza. Come scriveva Spinoza: “bisogna amare il bisogno”.



Bio:
Eric-Emmanuel Schmitt è nato a Sainte-Foy-lès-Lyon nel 1960. Come autore teatrale ha scritto numerose opere rappresentate in tutto il mondo. I suoi ro­manzi sono tradotti in molte lingue. Le Edizioni E/O hanno pubblicato Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano e Odette Toulemonde e Piccoli crimini coniugali, da cui sono stati tratti dei film, Milarepa, La parte dell’altro, La mia storia con Mozart, Quando ero un’opera d’arte, La rivale. Un racconto su Maria Callas, La sognatrice di Ostenda, Il visitatore, Il lottatore di sumo che non diventava grosso, Ulisse da Baghdad, La scuola degli egoisti, Concerto in memoria di un angelo, Quando penso che Beethoven è morto mentre tanti cretini ancora vivono..., La donna allo specchio, I dieci figli che la signora Ming non ha mai avuto, L’amore invisibile, La giostra del piacere, Elisir d’amore, Veleno d’amore e La notte di fuoco.

Tratto da Le Figaro Magazine, Luglio 2011
Intervista di Jean Christophe Buisson
Traduzione di Carlo Ligas
(L'articolo originale)

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