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giovedì 7 settembre 2017

David Sylvian, Made in Japan - intervista di Enrico Sisti


Mi fa pensare ad un attore di prima grandezza che esegue la parte di un eroe destinato a salvare dalla distruzione tutto quel vasto repertorio della cultura musicale contemporanea che si può racchiudere con un “ascoltabile” e contrapporre al “passabile”. L”ascoltabile” è frutto della creatività umana, dell’eros realizzato o tradito della ricerca e dei pensiero positivo. Il “passabile” è il tradimento delle emozioni, la rovina della psiche, la somma dei tanti Giuda che hanno conquistato gli avamposti dell’industria del consumo di massa, i molti sovversivi che spacciano gas tossici per olezzi afrodisiaci.
Ed è un grande uomo di scena, il Sylvian che mi presenta lo scenario devastato dalle sue percezioni. La sua vita è stata un continuo sbattere porte in faccia a traguardi ottenuti troppo facilmente, a scontatezze che improvvisamente hanno preso il posto di faticose conquiste estetiche. 
Sembrerebbe uno che si piange addosso, ma le cose stanno diversamente. Sylvian parla come uno che in un certo senso l’ha pagata tutta, la sua voglia di andare oltre. Un Herman Hesse dei nostri giorni, che a malincuore ha accettato il ricatto del mercato e che adesso vende la sua mercanzia benché non riesca mai a far proprio quello spirito entusiasta di chi sa che al tramonto tornerà a casa con le tasche piene. Lui magari è tornato qualche volta con le palle piene. Di cosa? Forse di disprezzo, e forse anche per se stesso. Forse di cattiveria, accesa come un fuoco dalle troppe inibizioni provocate da quello che lui definisce “despicable environment. Il fatto è che Sylvian si espone comunque ad un giudizio costante, e questo lo ripaga delle molte curve percorse a velocità supersonica col rischio di finire nel fosso, o contro un albero. Il giudizio costante di chi lo ha seguito da anni si sgretola però davanti al mistero dei Rain Tree Crow. Perché sono un’altra cosa rispetto ai Japan? Ecco il punto che rimane punto. La discussione si apre alla delicata, pericolosa fase in cui bisogna stabilire la legittimità di una mutazione apparente, e se vogliamo essere ottimisti, di uno spostamento impercettibile. 
Prima di incontrarlo, ho tirato fuori tutto quello che avevo dentro dei Japan e del Sylvian solista: mi si è presentato un mare che sembrava quieto e che invece sotto era percorso da correnti che non hanno nulla da invidiare a quelle che tenevano Ulisse lontano da Itaca. Gli sono affezionato a questo mare, perché in qualche modo mi ha sempre sbattuto dove voleva lui, magari in una spiaggia deserta, e deve c’era pericolo. Eppure era affascinante proprio questo misto di incertezza e avventura, di smarrimento e dubbio. Sylvian era la prova che qualche volta possiamo affidarci ad “altre ragioni”, che non siano necessariamente la risposta ad un interrogativo sociale o il venire incontro ad una richiesta ecologica. Mentre altri impazzivano in cerca di un’identità, e spesso dicevano di trovarla in quella specie di Dio allungato che è la chitarra, lui aveva tempo e modo di avanzare qualche perplessità, stringendosi dove tutti si allargavano, contraendosi in un atto di estrema interiorizzazione dove tutti si divertivano a rivelarsi estroversi, ma in realtà la loro era soltanto una fottuta paura di restare soli e senza un quattrino. 
Le linee del suono di Sylvian sono state sempre come le sue parole. Scelte rare, preziose, analizzate sempre con esuberanza controllata, fino a ridurle allo stato gassoso (in effetti, una parola è aria che “frica” tra le corde vocali). Sylvian è la vaporizzazione di alcune certezze. Valore negativo? Non direi, non direi proprio. Quell’essere impalpabili ha fatto dei suoi discorsi un’appendice al vangelo privato di ognuno di noi. Un vademecum che prevede la cartesiana accettazione dell’essere, cioè del vivere e, in questo caso, anche, del produrre. Un baedeker che ci insegna a visitare i mondi possibili secondo il principio per cui “la possibilità è la sola giustificazione delle cose che siamo in grado di vivere e di assimilare”. La musica di Sylvian è la riduzione in “evento armonico di frazioni d’arte”.



Pezzi, scaglie, frammenti, briciole tenute insieme da una forza soprannaturale che governa tanto il suo modo di scrivere quanto il nostro modo di recepire. Non esiste melodia in Sylvian in grado di determinare un ritornello. Il “vero e proprio” è un concetto estraneo al suo stile. Niente strofe, dunque, niente refrain, niente code, niente canzoni, niente sinfonie, niente “larghi” o “minuetti”. Il suo codice è una barra che nega la tradizione. 
Tutto dolcemente sfibrato, quasi una parodia della convenzione. Tutto destinato a descrivere il senso di legami sottili o apparentemente impossibili come per esempio quello tra pioggia, albero e corvo. Ma la gente si chiede anche se per caso non ci sia anche qualche caduta nell’autocompiacimento, se per caso la ricerca non invada talora il territorio del decadente gusto dell’arte per l’arte, se per caso tutto questo guardarsi non serva altro che ad arricchire i costruttori di specchi e ad ammalare qualche nostalgico dandy invaso dai libri di Oscar Wilde e dalle strazianti melodie senza fine di Gustav Mahler. «Se smetto di guardare me stesso, smetto di vivere» potrebbe precisare Sylvian. E avrebbe anche ragione, ma secondo me certe cose è meglio non dirle, meglio limitarsi a pensarle. Lui però ama se stesso come il prossimo suo, rovesciando il senso di una delle regole dei buon cristiano. Tutto sommato sono contento: la “norma” non ha mai prodotto grandi artisti, se non quelli che ad un certo punto lo sono diventati ricusando quello che avevano accettato in passato e che li aveva irregimentati al punto da perdere la propria autonomia creativa. 
E tutto sommato deve esserne contento anche lui, che per esempio afferma di aver capito che i Japan erano il risultato dell’insicurezza giovanile e dei tentativi, «spesso goffi» di superarla. Fondamentale a questo punto capire in che modo un artista cosi “mal” posizionato per avere un riscontro popolare ai suoi sforzi e per intuire attraverso le vendite discografiche i progressi compiuti, riesca a dirigere la propria esistenza pubblica e a governare i propri istinti anarchici. 

«Dipende dall’educazione, da come uno cresce, ma forse è meglio dire da come uno si trova suo malgrado a trascorrere quel periodo cruciale della propria esistenza che è l’adolescenza, il momento di massima ricettività, il punto nodale di tutta l’attività della memoria intesa come bagaglio culturale cui si attinge e come ricordo. E’ qui che si capisce che un uomo sarà destinato a vivere la crisi delle sue percezioni e a lavorarci sopra, o se invece più semplicemente vivrà sempre di pari passo con la propria coscienza, sempre in linea con tutto, sempre capace di rivedere fuori, all’esterno, nel mondo che lo circonda, ciò che ha dentro e ciò di cui è fermamente, filosoficamente convinto. Dall’adolescenza si vede insomma se un uomo sarà dubbioso o arrogante e sicuro». 




Cosi scopriamo il Sylvian del Duemila: un uomo che ha lottato col mondo quando era giovanissimo, che quando ha smesso si è trovato le mani sporche di terra, i vestiti macchiati, e tutto senza neppure ricordarsi bene perché aveva fatto a pugni con la vita. 

«L'ambiente in cui vivevo era insensibile. Mi sembrava un muto al quale stupidamente ogni giorno chiedevo di dirmi due parole, così per non sentirmi troppo isolato. Sono venuto su costretto ad erigere delle barriere psicologiche contro tutto. La cosa più naturale che mi veniva in mente era che la vita poteva farmi del male. Mi sentivo programmato per esistere in una data maniera, sulla quale non potevo assolutamente avere un parere determinante. Ho cercato di esorcizzare quest’impotenza attraverso la musica. E’ stata la musica a gettarmi fuori dal mio ambiente, ma era un palliativo e lo sapevo. La fuga forzata mi è costata moltissimo. Sia come ascoltatore che come musicista ho vissuto questo approccio all’arte con estrema passione, perché era l’unica via che avevo per sfuggire alle costrizioni del mio passato. Soltanto dopo un paio di dischi ho capito effettivamente quello che stava accadendo, Il musicista aveva preso possesso dell’uomo e cercava di integrarlo nella sua dimensione, sicuramente più confortevole. Ed è stato allora che ho avuto per la prima volta in vita mia la possibilità di cercare me stesso».

Eppure tra Sylvian e i Japan c’è un muro. 

«Ma non cerco di fingere che quel periodo non sia mai esistito. Anzi, la luce attuale illumina molto nitidamente quanto è accaduto, e non rimpiango assolutamente di aver fatto e detto quanto è servito a realizzare il progetto Japan. Ma i Japan non erano altro che un periodo di apprendimento, una scuola d’arte e di vita, frequentando la quale ho conosciuto ancor di più me stesso e il mondo. Presto sono diventati una concentrazione di pressioni eccessive, un insieme di responsabilità che non aveva più alcun senso accettare». 

I Japan sono per Sylvian quello che sono i Genesis per Peter Gabriel, Late For The Sky per Jackson Browne, gli arrangiamenti di The Wild, The Innocent... per Bruce Springsteen, i King Crimson per Robert Fripp, “Glad” per Stevie Winwood: qualcosa di superato ideologicamente e di fatto.



Per il pubblico invece la lettura di una parabola prende solitamente in considerazione tutto l’operato di un artista. Non si tralascia mai niente: si compra tutto il pacchetto e, anzi, ci si rallegra delle varie fasi, dei diversi approcci e delle innovazioni perché non c’è passaggio che possa escluderne un altro, agli occhi innamorati dell’appassionato. Quando parli con Peter Gabriel invece è quasi proibito menzionare i Genesis. E anche con Phil Collins non è che l’argomento sia così semplice da affrontare, Il Lou Reed di Drella è nemico dichiarato del suo periodo “animale”, mentre con grande correttezza Stevie Winwood esprime tutto il suo disappunto su alcuni Traffic di sua conoscenza, ma senza il disprezzo isterico dell’uomo che non se la sente più di riconoscersi in una vecchia fototessera. Poi ci sono i riciclatori, quelli autentici come David Crosby che non ha mai negato a se stesso la speranza di poter vedere riformati i Byrds primo organico (a parte la dolorosa scomparsa di Gene Clark, l’addio più brutto di quest’anno), e quelli dissimulati come David Sylvian, che schiaccia il ricordo dei Japan sotto un caterpillar freudiano, ma poi regala 
alle scene un gruppo formato per “puro caso” da Steve Jansen, Richard Barbieri e Mick Karn. 





Facile a scriversi in copertina, una parola spiegarlo al pubblico febbricitante che invece non ha mai nascosto la propria devozione e, parallelamente ad essa, il bisogno inappellabile di rivedere i propri beniamini di nuovo on the road. Ed è anche facilissimo corredare le note introduttive dell’album con la “clausola” dell’improvvisazione. Trame e suoni che nascono dal nulla, per pura emanazione, per puro istinto orchestrale? Un altro dubbio, stavolta più antipatico, che non consegna al disco dei RTC la stessa forza descrittiva della copertina, la quale riporta uno scenario alla Kurosawa, un mondo libero ma sul punto di essere guastato da sguardi troppo interessati: un post-qualcosa che riesuma lo spirito affaticato delle strade di Wim Wenders, gli spettacoli e le attese che avevano il gusto di prendersi sul serio quando non erano altro che la parabola discendente dì un ideale ormai doomed, giustiziato, dal tempo e dai pensieri. 
In questo clima di condanna visuale, è agevole sistemare cronologicamente l’ottimismo conoscitivo dei Japan, la coraggiosa analisi spirituale della musica del Sylvian solista e il ritorno inconfessabile ad una logica di gruppo. Il Sylvian da solo esemplificava la ricerca dell’io che per sopravvivere si guarda dentro. Per questa operazione aveva invitato di volta in volta artisti con i quali il contatto umano è stato a volte anche difficile, ma non lo era mai lavorarci. 
Vicino a Czukay si scorgeva il Sylvian espanso della sinfonia retrattile, cioè di quei moduli elastici che hanno trasmesso alla musica contemporanea un po’ di vecchia scuola tedesca (da leggere come Bruckner ma anche come Klaus Schulze).


Vicino a Sakamoto ronzava il Sylvian agile del pop appena tradito, appena offeso, ma non svergognato. Un lirismo che proprio dal piano acustico di Sakamoto prendeva forza da sbattere giù un albero.



Singolari tensioni fruivano poi della cortese follia di Robert Fripp (“Upon This Earth”) per infilare le dita nel mondo degli strumentali come fosse pongo, o per donare proprio attraverso la riutilizzazione dei frippertronics un senso agli accostamenti Occidente-Oriente (“Steel Cathedrals”, colonna sonora del filmetto di Sylvian e Yamaguchi) che altrove non hanno mai convinto troppo e che fuori da Sylvian paiono accettabili nelle colonne sonore di Sakamoto e un po’ spregevoli in certe cineserie d’imitazione, probabilmente made in Sorrento.



In ogni caso, il Sylvian degli attuali Japan-non-Japan o dei forse-Japan è un uomo che sa di aver compiuto il passo decisivo verso la maturazione. 

«La maturazione è anzitutto un evento interiore: più avanti si trasforma in una nuova consapevolezza artistica. La distanza tra Japan e Rain Tree Crow è infinita. La mia vita tra le due esperienze la vedo oggi come una fase di sviluppo a tratti interminabile e a volte difficile. Alla fine dei Japan ho trascorso due anni di grande intensità, durante i quali ho preso maggior coscienza di me e ho cambiato il modo di relazionarmi al mondo esterno. Uno dei punti cardine del mio rinnovamento spirituale è stato quello di approntare una più approfondita conoscenza psicologica di me stesso. E dall’84 posso dire che c’è effettivamente stata una continuità in ciò che ho fatto. Cosa che non accadeva prima, dove le mie attività spesso non avevano una logica che le raggruppasse e le facesse apparire per ciò che effettivamente erano: il prodotto di un’unica personalità». 

Casuale forse, ma non troppo, che il rifiuto di Sylvian di aderire a qualsivoglia progetto discografico di gruppo sia coinciso con il periodo più nero degli anni Ottanta. 

«E’ stata certamente una decade di rapacità e di materialismo, specie dall’83 in avanti. Tutti hanno lavorato per proprio conto, c’è stata, specie nella musica, un’espansione di quella che potremmo definire iniziativa artistica privata e ciò ha portato come conseguenza un inasprimento dei sentimenti, un bisogno di circoscrivere la propria zona, il proprio territorio d’influenza. Eppure credo che proprio per questi motivi è stato per me un periodo determinante, perchè ho potuto perfezionare un distacco dall’industria musicale che prima non avevo il coraggio di avviare. Ero conscio di quello che dovevo fare, ma non sapevo da dove cominciare, Il percorso abituale vita-lavoro-vita è diventato improvvisamente più agevole dopo che avevo capito come dovevo posizionarmi in rapporto ai disagi del mercato e alle inutilità che esso mi offriva dal punto di vista professionale». 

Forse è bene specificare a questo punto che cosa intenda Sylvian per materialistico. 

«Non una dimensione opposta al misticismo, ma qualcosa che piuttosto si bilancia con la spiritualità. In sostanza, sono convinto che esistano più realtà, e una di queste può essere considerata la realtà materialistica. Ci sono artisti che puntano alla realtà materialistica, non insomma in senso marxista, e altri che puntano alla realtà spirituale, non dunque in senso anti-marxista. Una ti proietta nella società per confonderti, l’altra ti permette di mettere a fuoco meglio te stesso e le cose». 

Ma naturalmente c’è da supporre che la spiritualità cui Sylvian allude non ha nulla a che vedere con la religione. 

«La parola religione ha diverse connotazioni, e ciò che ne complica l’analisi è che sono quasi tutte vere o, quanto meno, accettabili. Capisco il problema sociale della religione costituzionale, che segue liturgia e regole come un grande dopolavoro aperto a tutti, ma non lo vivo assolutamente. Diverso invece è quel concetto di religione che a livello popolare si lega all’idea di potere e di assenza di compassione. Ma, se proprio debbo usare l’espressione, per me la religione è la spiritualità in sé, collegata all’idea di connessione con tutto ciò che esiste. E tutto questo si aggancia a sua volta non tanto al senso di solitudine, la quale non implica una scelta ma diventa il risultato di una serie di fallimenti esistenziali. L'essere soli è invece un’esperienza totalmente positiva, assolutamente gratificante e vantaggiosa. E’ l’unico modo per entrare in contatto con quella parte di te che ti consente, quando l’hai conosciuta a fondo, di vedere la vita in un modo nuovo. Il risultato finale è che uno acquista più responsabilità nell’essere la parte singola di una collettività. Quando ero giovane non avevo la sensazione di far parte di una società, ma soprattutto non volevo affatto. Adesso non soltanto vedo la questione in modo diverso, non soltanto sento di appartenere ad un mondo, ma sento anche di condizionarlo. Che poi è la guerra dell’artista che intende incidere su quanto gli sta attorno, contrapposta a quella sterile combattuta con armi caricate a salve di chi pensa all’arte come prodotto che gira attorno a se stesso. L'arte ti aiuta a crescere e a sviluppare la tua sensibilità perchè la vera arte ha sempre uno scopo. Sono andato avanti con le mie idee sulla musica, forse qualche volta mi sono ripetuto, ma non ho mai avuto la sensazione di invecchiare dietro le mie cose. E nello stesso tempo non ho mai avuto paura di perdere l’innocenza della mia gioventù. Tutto sommato ciò che più mi terrorizza è che un giorno potrei anche accorgermi che tutti i passi avanti che ho compiuto non sono che apparenza e che invece sono rimasto fermo come un palo della luce. Ma anche in questo c’è qualcosa da imparare. Del resto la vita si ferma soltanto quando non hai più la forza di apprendere niente». 

Ecco allora che nella musica di Sylvian si fa strada l’ipotesi che ogni canzone nasconda una preghiera, qualcosa di profondamente spirituale che possa anche magari per un solo attimo ridurre lo iato esistente tra l’uomo e le proprie aspirazioni, tra l’uomo e ciò che non può conoscere ma soltanto intuire.


Eppure anche in questa operazione, che sembrerebbe attuabile in totale solitudine (per dirla alla Sylvian nell’”essere soli”), si può ricorrere all’ausilio di qualche compagno dì solitudine. Dunque qualche volta l’alleanza partorisce qualcosa, specie se l’alleanza matura nelle alte sfere creative che hanno accomunato spesso i destini di David Sylvian e di Ryuichi Sakamoto.

«Siamo molto vicini, ma non è sempre stato cosi. All’inizio, lavorare con Sakamoto era abbastanza straniante. Lui non capiva una parola d’inglese e ne parlava ancora meno. Così dovevamo ricorrere ad un interprete che, se da un lato ci permetteva di chiarire ogni punto oscuro e di approfondire quello che c’era da approfondire, certamente non dava ai colloqui un tono intimo e partecipato». 

Ero convinto però che Sylvian conoscesse il giapponese. «lo? Assolutamente no». Poi però correggere il tiro: «Non al punto da sostenere una conversazione». 
Ben altra cosa, e comunque è divertente pensare a questi due figuri, tutti presi dalle loro visioni, parlare animatamente col cuore in mano senza parlarsi affatto e costretti a ricorrere ad un estraneo. 

«Sakamoto mi stupisce ogni volta per la grande cultura che possiede. Credo che la sua cultura sia paradossalmente più vasta del suo talento. Ed è così che riesce senza artifici a passare da un genere all’altro. La sua naturalezza mi lascia di sasso, credo proprio di invidiarlo moltissimo. In ogni caso, la cosa che più mi colpisce sono i suoi assoli pianistici. Non ce n’è uno uguale all’altro. Ha un’immaginazione fertile come un campo di grano. Sono l’esatta combinazione di cultura e talento».


Quanto agli altri? «Con Holger sono molto amico, la nostra collaborazione nasce da un’intesa maturata anche lontano dagli studi di registrazione». Ed è fuori di dubbio che l’armonia tra Holger Czukay e David Sylvian sia tutta nel modo di contaminare i generi proposti per esempio in Flux + Mutability.


«Di Robert Fripp invece apprezzo moltissimo la sua capacità di disciplinare la creatività. Lui è un rigoroso che parte però dal presupposto opposto, cioè dal puro istinto melodico». 


Continuiamo a dirci soddisfatti dei cambiamenti del mondo che dopo aver accolto le innovazioni della world music, sta rapidamente mutando aspetto per consentire ulteriori progressi. Sylvian ha un’idea di world music che somiglia molto ad un furto collettivo su base anarchica: cioè si vive di continue incursioni in territori stranieri ma senza sapere a priori quale deve essere l’obiettivo da centrare. Quanto a cinismo, non è da bassa classifica. Non si sente una star della world music: il mondo comunica bene, ma secondo lui tutto questo è sempre accaduto, soltanto che ultimamente il mercato ci sta costruendo sopra una tendenza. Quanto al proprio vivere, alle proprie realtà “homemade”, si sente protetto dalla Londra di Chelsea dove abita senza condividerne l’agio borghese. Eppure Sylvian è il borghese per eccellenza. Dice di appartenere al suo tempo ma certo è che non starebbe affatto male a Parigi dopo la Comune del 1871, preda di qualche infatuazione “maledetta”. Non si svela il mistero dei Rain Tree Crow. Giusto così, dietro la patina del riflessivo, magari questa è l’unica cosa cui Sylvian non ha realmente pensato. Lui, che per definizione sa che un artista per arrivare al top non può privilegiare né istinto né metodo, ma coniugarli, è in crisi nello spiegare la ragione di un “no!” tanto deciso all’impressione che in effetti i RTC siano dei Japan in maschera. Forse c’è da ridere, forse, come sente il Sylvian che invoca un Kundera per il rock, è una matassa da dipanare lentamente. Magari col prossimo appuntamento che ci daremo esattamente a metà strada tra un “Beehive”, le “Georgiche” di Virgilio e un film di Ozu.



(Enrico Sisti, Rockstar, agosto 1991)

martedì 30 maggio 2017

Donald Fagen, dal Volo Notturno agli Steely Dan - intervista di Massimo Cotto


«Il viaggio è tutto, nella musica.
La grande musica è quella che non si accontenta di condurti fuori dal mondo e di trasportare la tua mente altrove, ma quella che ti fa diventare protagonista del viaggio. Allora non sei più un semplice ascoltatore che segue con passione più o meno grande il viaggio di qualcun altro, ma entri nella storia stessa, aggiungendo nuovi elementi. L'immaginazione è parte fondamentale del rock ed è fondamentale che il rock venga veicolato da mezzi come la radio perché è lì che l’immaginazione ha carta bianca, è lì che l’ascoltatore diventa co-autore: in assenza di immagini è lui a costruirle sulla base della canzone. L’artista dà la traccia, il fruitore la segue e insieme giungono all’assassino».


A volte ritornano. E, come ogni assassino che si rispetti, ritornano sempre sul luogo del delitto. Anche se si fanno attendere 11 anni.
Tanti ne sono passati da The NightfIy (1982), straordinario viaggio notturno sulle ali di un’America perduta e addormentata sulla musica, a Kamakiriad (1993), viaggio nel cielo del futuro per meglio diradare le nebbie del presente. Altra corsa, altro regalo, come nei luna park dei bambini. E il regalo è una musica bella e intensa che sintonizza il respiro al battito del jazz, al sussurro del soul, al ritmo del rock e del funk; che farà parlare di sè anche se probabilmente non otterrà le sette nomination ai Grammy Awards e i riconoscimenti a non finire che sono piovuti addosso al precedente.
Forse però era meglio non vederlo, Donald Fagen. Lasciare che anche qui fosse l’immaginazione ad avere carta bianca, a costruire, in assenza d’immagini che non fossero le copertine dei suoi due dischi, la nostra immagine di lui. Da vicino, la metà degli Steely Dan non ha nulla del disc-jockey bello e affascinante di The Nightfly, in cravatta e camicia sbottonata, in uno studio radiofonico davanti a un microfono, un pacchetto di Chesterfields, un disco dì Sonny Rollins e un piatto d’altri tempi. E ha poco dell’intrigante turista per caso di Kamakiriad, occhialini da aviatore giubbotto bianco e maglia scura. Da vicino, in felpa blu, jeans e scarpe da basket, appesantito da una faccia gonfia e da una pancia che fanno un po' tristezza, Donald Fagen sembra una rana. O un rospo, che si tramuta in principe solo se baciato dalla musica, ma che attende la sua principessa al centro dello stagno dove è più difficile arrivare. In questi ultimi due lustri, infatti, abbiamo avuto molte notizie, pettegolezzi e voci su di lui, ma pochissimi fatti: qualche produzione, una manciata di articoli di critica musicale scritti per “Premiere”, un pugno di non riuscitissime collaborazioni a colonne sonore come “Le Mille Luci Di New York”, un paio di altre episodiche sortite. 


L'unico nocciolo di questo decennio senza centro era rappresentato dall'estemporaneo lavoro con la “New York Rock And Soul Revue”.

«L’idea è nata in seguito alle insistenze della mia compagna Libby Titus, che produce piccoli spettacoli di cabaret e musica. Mi chiese dapprima se fossi intenzionato ad allestire uno show di jazz blues con Mac Rebennack (Dr. John); poi, dopo aver constatato il mio divertimento, se mi interessasse organizzare una serata in omaggio di Bert Berns e Jerry Ragovoy, due grandi songwriter newyorkesi che stimo da sempre. Convocammo un gruppo di artisti, che comprendeva fra i tanti Michael McDonald. Phoebe Snow, Boz Scaggs e Charles Brown dei Rascals. L'intenzione era di fare tutto in famiglia, tra pochi amici, ma la notizia si sparse velocemente e fummo quasi costretti a suonare in locali sempre più capaci. All’inizio ignoravo le richieste del pubblico, che mi domandava a gran voce vecchi brani degli Steely Dan, poi mi dissi: ‘perché no?’. Cominciai da ‘Pretzel Logic” e andai avanti. Direi quasi che ci presi gusto. Ero rimasto lontano dalle scene per troppo tempo. Era ora di tornare. Terminai il disco e mi ripresentai. Finalmente».

L'omaggio a Berns - di cui citiamo solo quattro dei suoi mille successi: “Twist And Shout”, “Piece Of My Heart”, “Everybody Needs Somebody To Love” , “Under The Boardwalk” - e a Ragovoy - “Time Is On My Side”, “Cry Baby” e decine d’altri brani senza tempo - fu dunque il trampolino per il ritorno. Così, oggi, finalmente è nei negozi il nuovo album di cui sì parla da secoli (Fagen cominciò a lavorarci nel 1987). Ma perché un’attesa così lunga? Che cosa è successo in questi 11 anni?


«Dopo The Nightfly ho conosciuto per la prima volta il blocco dello scrittore. Avevo inserito in quell’album tutto ciò che sapevo e volevo dire o fare. Mi sentivo come prosciugato. Mi ci è voluto del tempo per riempire quel senso di vuoto. Non mi hanno aiutato gli anni Ottanta, così poco suggestivi, torse gli anni più brutti dei quattro decenni del rock. Inoltre: avvertivo forte la necessità di vivere fuori dal mio lavoro, quando fino ad allora avevo vissuto del mio lavoro. Decisi così di allontanarmi per un po’, per provare altre esperienze, ma, anziché trarne giovamento, entrai in una lunga fase critica. Ho conosciuto la depressione e la terapia. Ne sono venuto fuori, almeno credo, ma non avrei mai immaginato che sarebbero stati necessari 11 anni. A volte fatico a crederci».

L’illusione che non sia vero, che non sia passato più d’un mese da The Nighffly dura il tempo di una canzone, la prima, “Trans-Island Skyway”; poi emergono le molte differenze. Kamakiriad è più aggressivo, meno dolce, meno jazzato, meno immediatamente pop. Sembra un tentativo di addizionare il soul degli anni Settanta, saltando a pie’ pari gli Ottanta, per ottenere come risultato una elitaria dance music dei Novanta.

«Musicalmente parlando, Kamakiriad è molto più semplice di The Nightfly. So che in apparenza è proprio il contrario, ma in questo disco ho tentato di pulire il suono. Il problema di molta musica di oggi è che è un prodotto della tecnologia prima ancora che di una mente umana. La tecnologia è importante e preziosa quando è l’uomo a usarla. La possibilità dell’uomo di utilizzare macchine che imitino la voce umana o gli strumenti è un ottimo punto di partenza per ottenere grandi risultati, per vedere nuove frontiere. Molte volte però, l’uomo si lascia purtroppo schiavizzare dalla macchina e diventa lei a scrivere il brano. Le macchine esistono per servire l’uomo, non per diventare sue padrone. Così, in Kamakiriad, invece di riempire di overdubs lo spazio di una canzone ho provato a dare area ai ritmi, se mi concedi l’espressione. La gente è stanca di album dalla produzione pesante, dagli arrangiamenti complessi e dai suoni gonfi. La musica non è solo data dai suoni, ma dallo spazio tra i suoni. È lì che molte volte trova spazio l’emozione».

Belle parole, bellissima filosofia. Per la verità, il risultato non è sempre pari alle intenzioni (o forse è solo il confronto impari con la perfezione assoluta di The Nightfly?), e a volte il motore tossisce e stenta a macinare miglia. E’ soltanto un caso che la porzione di viaggio più affascinante sia quella che fa sosta fra le dune di “On The Dunes”, ballata di desolazione e jazz che risale, unica fra le canzoni appena pubblicate, all’epoca del Volo Notturno? Ma di viaggio si tratta, e non sempre, si sa, i viaggi sono privi di dolore. Che sia un volto diverso, lo si capisce fin dai mezzi di locomozione enunciati nei rispettivi brani d’apertura.
“l.G.Y” evocava il treno, mezzo adattissimo ai sogni e alle fantasie di chi era cresciuto nei remoti sobborghi di una città della costa orientale d'America nei tardi anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, “Trans-lsland Skyway” introduce la Kamakiri, macchina da sogno costruita per il nuovo millennio, motore interamente a vapore, fattoria biologica interna autosufficiente (!) per garantire ogni giorno prodotti freschi e genuini, possibilità praticamente illimitate.

«The Nightfly era un viaggio nel passato, nella mia infanzia e adolescenza. La gente lo ha interpretato come un omaggio alla musica che amavo e che mi aveva influenzato, ma non era solo quello. Nel 1982 ero giovane, ricco e famoso, ma il continuo lavoro mi aveva fatto saltare una buona parte della mia giovinezza. Per anni avevo lavorato sempre, anche di domenica, a Pasqua, a Natale, Così, per esorcizzare quella strana sensazione di aver perduto una parte della mia vita, ho provato a ricostruirla in un disco. Un viaggio guidata da Lester the Nightfly un disc-jockey di fantasia che molto mi assomigliava. Ma, una volta completato il disco, provai un’altra brutta sensazione, quella di essermi esposto troppo, di aver rivelato troppo di me. Ero di nuovo nei guai, questa volta seri. Kamakiriad è meno personale, anche perché ambientato nel futuro. Questa volta rischio di meno. Non credo resterò fermo altri 11 anni».

L'azione si svolge in un punto imprecisato del secondo millennio. Il viaggiatore. la cui macchina avveniristica è collegata con il satellite Tripstar (Teologic Routing Satellite), parte senza conoscere la sua destinazione (“come in ogni mito che si rispetti”), con la sola consapevolezza che ne esiste una. La troverà a Flytown, ma solo per mettersi in movimento.


«La vita è il viaggio: il viaggio che dall’innocenza, attraverso prove che contemplano molte perdite e sconfitte. ti conduce alla destinazione finale. Una volta giunto alla meta tocca a te decidere se arrenderti, cedere all’abbandono, oppure ripartire per un’altra destinazione. Non so se posso definirla una morale, ma il senso, uno dei sensi del viaggio di Kamakiriad è questo: ci vogliono molte prove e molto tempo per capire che non esiste un solo punto d’arrivo».

Le otto canzoni sono altrettante tappe del viaggio. Nella prima, il viaggiatore raccoglie una superstite di un incidente stradale e si dirige verso Five Zoos, “dove il sole è accecante e l’acqua bollente”. Nella seconda, la macchina attraversa Splittsville, il paese che vive tre stagioni normali e nella quarta è illuminato dalla controluna, “una luna particolare, che anziché favorire l’unione e l’amore tra uomo e donna, provoca irrimediabilmente la rottura della relazione in corso”. Nella terza si giunge a Laughing Pines, dove una nuova attrazione, Funway, consente di rivivere gli amori passati, ricreando le memorie della vita. Quarta sosta nella Nervous Time di Snowbound, la città della Depressione, dove ogni cosa è tristezza e le uniche luci sono quelle che per sette secondi
Wolf-Tommy accende sul fiume gelato. Nel quinto atto del viaggio il protagonista si ritrova nella sua città natale, ma solo per scoprire che tutte le donne di ieri sono state sostituite dalle Donne di Domani.

«Ho immaginato questa invasione di donne aliene, provenienti da un altro pianeta, che gradatamente sostituiscono tutte le donne della città, non tanto come metafora della donna di oggi. Pensavo più che altro alla degenerazione di un rapporto sentimentale. Quando due persone smettono di amarsi, ma continuano a stare insieme e si allontanano sempre più, ognuno in una direzione diversa, su una nuova strada a cercare nuove emozioni. E una mattina l’uomo si sveglia (ma potrebbe benissimo essere la donna), guarda la sua compagna e non la riconosce più. Un’altra l’ha sostituita».

Due le tappe rimanenti - “Florida Room” (‘dove lei è ‘unica che può riportarmi alla vita quando la città gela”) e “On The Dunes” (‘dove ho visto la mia felicità scomparire lontano con la marea”) - prima di arrivare a Flytown (“dove finiscono la speranza e l'autostrada”) e passare una notte d’incanto, nella “Teahouse On The Tracks” fra Bleack e Divine (cioè fra la Desolazione e il Divino). La mattina dopo, la Kamakiriad sarà di nuovo in strada. Il viaggio non finisce mai. Prima del falso approdo, il viaggiatore affronta dunque sette prove che prevedono altrettante perdite: della vita di chi ti è accanto (“Trans-lsland Skyway”); dell’amore (“Countermoon”); della giovinezza, attraverso l’evocazione degli amori perduti (“Springtime”); della serenità (“Snowbound”); della quotidianità (“Tomorrows's Girls”); del calore (“Florida’s Room”); della felicità (“On The Dunes”). Fantascienza per parlare di realtà? Un viaggio nel futuro come falso movimento?

«Anche. La fantascienza ti concede libertà che altrove ti sono negate. In primo luogo, l’ambientazione della storia del futuro dà la possibilità di parlare del presente con quel distacco necessario a non precludere l’obiettività. Inoltre ti permette, inventando macchine da sogno e oggetti strani nonché città dove accadono eventi speciali, di bacchettare certi mali o esagerazioni del mondo d’oggi. Il miglior modo di fare satira è mescolarla alla fantascienza. Il mio viaggio è interpretabile ad almeno due livelli: letterale e metaforico. Ognuno può scegliere quello che più gli aggrada. Tornando alla fantascienza, non leggo più quanto un tempo ma ho apprezzato alcune cose della nuova frontiera del cyberpunk. Ad esempio, leggo con passione William Gibson, che mi ricorda gli scrittori che leggevo da piccolo: Bester, Dick, Heinlein, Van Vogt».

Dunque Donald Fagen è tornato.

«Se avessi atteso ancora un po’, nessuno mi avrebbe più riconosciuto. Quando chiamavo la Warner, la segretaria mi diceva: “Fagen? Mi può fare lo spelling, per cortesia?”.


E ha chiamato per produrre il nuovo lavoro il vecchio amico, Walter Becker:

«Mi sentivo solo, in studio, così mi sono detto: se devo proprio confrontarmi con un altro, perché non chiamare qualcuno con cui ho già litigato?».

Come Fagen, anche Becker era rimasto lontano dalla musica in prima persona. Se il vecchio compagno aveva trovato divertimento solo in estemporanee passeggiate nel mondo delle soundtrack (“Re Per Una Notte” di Scorsese, “Gospel At Colonus”, musical di Broadway, e “Arthur 2”, oltre al già citato “Le Mille Luci Di New York”) lui si era dedicato alle produzioni (Rickie Lee Jones, Windham Hill, China Crisis...), buoni lavori, ma senza colpi d’ala. Poi la chiamata di Fagen si è allargata, fino a suonare le parti di basso e la chitarra solista e a ritrovare i vecchi stimoli.
Con il ricongiungimento della coppia, le mille voci di New York hanno ceduto il posto a sedere a una voce sola, confermata dagli stessi protagonisti: tornano anche gli Steely Dan. Ancora non si sa con quale nome (Steely Dan, Becker and Fagen o una nuova sigla), ma è certo un tour, che partirà quest’estate dal Grande Paese per giungere in autunno nella Vecchia Europa, si spera Italia inclusa. Il repertorio? Le canzoni del nuovo album di Walter Becker, i brani dei due lavori da solista di Donald Fagen e molti pezzi degli Steely Dan, rimasticati e riarrangiati, Altra corsa, altro
regalo. È questo, forse, dopo l’antipasto di Kamakiriad , il piatto prelibato, il gran fritto misto: non solo gli Steely Dan si riformano, ma tornano a cantare e suonare dal vivo.

« Non succedeva dal 1974 perché non riuscivamo a trovare i musicisti adatti. Molti dei nostri collaboratori erano bravissimi strumentisti, ma per niente versatili, incapaci di passare disinvoltamente da uno stile all’altro, come ci attendevamo da loro. Le canzoni degli Steely Dan erano molto diverse l’una dall’altra, sebbene ad ognuno avessimo fatto indossare il medesimo vestito per rendere riconoscibili noi e loro. Perciò avremmo avuto bisogno di musicisti diversi per ogni canzone, e questo non era possibile, oltre che economico. Non avevamo soldi a sufficienza per scritturare venti band diverse e alternarle sul palco. Così, io e Walter decidemmo di concentrarci sulla composizione e sul lavoro in sala di registrazione».

La band che aveva rubato il nome a un passaggio de “Il Pasto Nudo” di William Burroughs seguitò da quel 1974 ad aggiungere da studio piccoli gioielli alla già bella collana: una “Rikki Don’t Lose That Number”, che divenne il loro più grande hit, con strizzate d’occhio e toccatine di gomito al pianista hardbop Horace Silver; una “Parker’s Band” che era saluto al sax be-bop di Bird; un rifacimento della “East St. Louis Toodle-oo” di Duke Ellington con le chitarre wah-wah di Becker a simular la tromba di Bubber Miley; un quintetto di album belli (anche se a volte controversi) come Pretzel Logic, Katy Lied, The Royal Scam, Aja, Gaucho. Momenti di gloria dove il grande domatore del jazz-pop-rock ammansiva le belve feroci dei testi, oscuri e criptici. Prodotti impeccabili nella forma che ammaliavano chi domandava nitore e rigore formale e che guadagnavano se non l’amore il rispetto anche di chi alla musica chiedeva coinvolgimento totale, emozioni a tambur battente, alternanza di sentimenti, esposizione aperta al pubblico di gioie, dolori e autobiografia.
In fondo, non è mica detto che chi ama Billie non possa riconoscere il valore di Ella.


«Ci hanno sempre accusati di freddezza eccessiva, di grande distacco dalle canzoni, come se scrivere fosse qualcosa che si faceva per passatempo. Ma noi sapevamo e volevamo fare un solo tipo di musica, che magari qualcuno considerava d’élite. Il miglior complimento che mi abbiano fatto è che la musica degli Steely Dan e di The Nightfly sono senza tempo, non necessariamente legate all’anno in cui sono stati realizzate. E’ confortante sapere di essere riuscito a produrre qualcosa che oggi, a distanza di vent’anni non è considerato datato. Adesso vorrei che qualcuno si accorgesse che gli Steely Dan, sebbene usassero spesso accordi e armonie sofisticate, avevano come scopo primario quello di semplificare. Prima sommare elementi diversi - principalmente i suoni e le suggestioni del jazz con la strumentazione tipica del rock e il fascino dei suoni latini - e poi spogliare il risultato delle sue sovrastrutture. Adesso siamo tornati. The Nightfly era il mio passato, Kamakiriad è il mio viaggio nel futuro. Gli Steely Dan tornano ad essere il mio presente».

(Massimo Cotto, Rockstar, luglio 1993)

lunedì 16 maggio 2016

PRINCE: Sign “☮” The Times, di Alberto Castelli


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PRINCE
«Sign “☮” The Times»
Paisley Park, 1987 

Il muso di un’automobile, una chitarra sul pavimento, una batteria, fiori appassiti, insegne lampeggianti di locali notturni, un volto sfocato in un angolo, in primo piano: la confusione di queste immagini è un segno dei tempi. Prince e la sua musica sono un segno dei tempi. 
Quel volto appartiene al simbolo sessuale più forte della musica nera da James Brown e Marvin Gaye in poi, ad una star e, non dimentichiamolo, ad un innovatore. Come tutti i protagonisti dei cambiamenti, come tutti coloro che interpretano il feeling dei tempi e finiscono per trovarsi un metro più avanti degli altri, Prince ha fatto sua fino in fondo una storia, una tradizione musicale, per poi costruire qualcosa di radicalmente nuovo e sorprendentemente inedito. 
Come Charlie Parker, che imparò a memoria ogni respiro degli assoli di Lester Young, dimenticò volutamente la lezione e cominciò a soffiare il suo blues. 
Come i Beatles e il rock’n’roll, Bob Dylan e Woody Guthrie. 
Come i veri artisti è continuamente in movimento. È un viaggiatore che, dopo essersi spinto in ogni direzione, ha trovato il suo posto in un luogo impreciso e lontano. Le sue antenne sono sempre pronte a recepire segnali, suggestioni ed ispirazioni per rimodellarle e trasformarle con sensibilità.
E quanta fantasia! In “The Ballad Of Dorothy Parker”, uno dei momenti più strani ed intensi di tutto l’album, immagina un’avventura con una cameriera in un bar (sarà uno scherzo o si tratta veramente della scrittrice?) i due accendono la radio, Joni Mitchell canta “Help Me”, la canzone preferita da lei, squilla il telefono a spezzare la tensione e la magia di quell’incontro, la prossima volta lui agirà più in fretta. 
La prossima volta è appena girato il disco, “lt’: “Ci penso continuamente, baby. È tanto bello che deve essere un delitto. A letto, sulle scale, da qualsiasi parte va bene”. Una drum-machine ossessiva e martellante, una chitarra convulsa, lo stesso dei blues di Muddy Waters, delle pagine più appassionate di James Baldwin, se ne percepisce quasi l’odore — quello che James Brown chiamava “funky smell”.
Ed è un altro segno dei tempi, talmente presente in Sign Of The Times che il titolo potrebbe diventare Beat Of The Times: da “Housequake” a “Hot Thing”, da “U Got The Look” a “lt’s Gonna Be A Beautiful Night” (un coro gioioso che unisce Prince & The Revolution e seimila “wonderful parisian”).
Gli altri episodi, più intimi e rilassati, svelano, se mai ce ne fosse bisogno, il talento compositivo dell’ “uomo” e l’ingenuità quasi infantile di un musicista che si diverte ancora a giocare con le note, ad accostarle una all’altra quasi per caso, come se i colori si incontrassero da soli sulla tela. 
Ancora una volta Prince si nasconde dietro un personaggio indefinibile (vi ricordate Christopher, l’autore di “Manic Monday”?); ora è la volta di Camille in “lf I Was Your Girlfriend”: “Se io fossi la tua ragazza, ti ricorderesti di dirmi tutte le cose che hai dimenticato di dirmi quando io ero il tuo uomo?”.
Queste sedici canzoni sono affascinanti e misteriose. E la cosa più bella è tentare di scoprirne il segreto.

Alberto Castelli 9/10





(tratta da Rockstar, Maggio 1987, N.80)



Il piccolo grande uomo PRINCE: L’unica intervista




Prince continua a cantarci le più belle favole del pop moderno, ma si ostina a tacere la sua verità. Nessuno era riuscito a farlo parlare, a tirargli fuori di bocca quell’ossessione di vita che lo tormenta e lo ha reso inarrivabile. Qualcuno — naturalmente una donna — ha infine conquistato la sua fiducia.



Un tempo lontano, quando ero molto piccola, mia madre aveva l’abitudine di leggermi sempre delle favole prima che mi addormentassi. 
A tutte preferivo la tenera storia del brutto anatroccolo di Andersen. Le uova che covava mamma anatroccola si erano da poco dischiuse, i piccoli vennero fuori tutti bellissimi salvo uno che era veramente brutto. Il mondo, purtroppo era molto cattivo ed esso, crescendo, veniva schernito da tutti. Così il brutto anatroccolo, con il cuore che gli batteva forte forte, correva a cercare protezione sotto l’ala della mamma…
Vivere nell’entourage di Prince durante il suo soggiorno, ritrovarsi quasi sempre a pochi passi da lui, usare lo stesso catering per mangiare, riuscire a fraternizzare con le poche persone che gli sono accanto da tempo, vincere la sua ritrosia a parlare con gli estranei diventandogli pian piano familiare, mi ha riportato alla mente quel momento della mia infanzia e quella favola malinconica che sembra calzargli a pennello.
Il lago dove il brutto anatroccolo si trasforma in regale cigno è il palcoscenico. L’ala sotto la quale andarsi a nascondere sin da bambino è spesso stata la musica, raramente la madre.

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Dice Prince: «Ero diverso dagli altri ragazzini, piuttosto gracile e sgraziato, ma più intelligente e molto più sensibile. Il pianeta dei bambini è un mondo a parte, molto più crudele di quanto agli adulti è dato di pensare. A volte tornavo a casa, affannato e piangente, salivo le scale di corsa per correre da lei... ma non sempre la trovavo sola. Ho un ricordo netto di quella stanza dalle pareti rese grigie dalla sporcizia raccolta dal tempo.., Il letto era sempre un po’ sfatto, la finestra dava su un cortile sporco e maleodorante: tutto sottolineava l’incuria e le ristrettezze finanziarie. Una volta, distesa su quel letto sul quale poche ore prima aveva trovato riposo un uomo che non era mio padre — che a quel tempo già ci aveva abbandonati sconvolto dall’insuccesso nel suo lavoro e dall’alcool sempre più padrone della sua vita — avevo visto mia madre che sembrava riposasse. Spiavo il suo sonno e ad un tratto vidi tra le sue gambe cadere un rivolo sottile di sangue che macchiava di rosso le lenzuola... Il mio primo istinto fu di toccarla temendo si sentisse male, poi scattò qualcosa nella mia fantasia di bambino che mi fece collegare quel sangue a quell’uomo... Mi sentii perduto, colpito a morte... Fu in quel momento che per me il senso dell’esistenza sembrò spaccarsi in due. Percepivo per la prima volta la parola sesso in un modo diverso: sul letto di mia madre non c’era mai stato del sangue finché aveva riposato con mio padre. Nella mia mente mi sembrò di prendere coscienza della parola ‘peccato”. Fu in quell’occasione che sentii in me per la prima volta il morso della gelosia. Mia madre era felice che io fossi maschio, ne era così orgogliosa che più volte mia sorella — schernendomi — mi ha raccontato che piccolissimo, mi lavava con estrema cura. Il fatto di avere quell’attributo in più rispetto a lei, l’ha sempre un po’ infastidita mentre per me ha provocato sempre il terrore di non essere all’altezza, e a volte questa paura affiora ancora oggi».

Cosa vuoi dire esattamente?


«Non chiedermi se vuoi dire che a volte non mi sento maschio, ognuno è ciò che veramente sente di essere e non ha bisogno di raccontarlo agli altri. Mia sorella ha sempre desiderato essere un uomo e così mi sono chiesto tante volte che divertente se riuscissero con un intervento ad attaccarle il pene. Aveva delle bambole, sempre di seconda mano ma a lei non sembrava importare molto: non la divertivano. lo, invece, passavo le ore ad agghindarle, a pettinarle i capelli, ad inventare dei vestiti, poi, appena pronte le conducevo ad un ballo immaginario dove le facevo danzare: ero il loro burattinaio».

Una passione che in definitiva ti è rimasta... Hai creato personaggi come Vanity, Apollonia, la stessa Sheila E. Sembrano avere tutte la stessa matrice: colore della pelle, modo di vestire e si somigliano persino nei tratti, come mai?


«Non è voluto, è piuttosto che la mia attenzione viene presa da quel tipo di donna. C’è a chi piacciono le bionde, io preferisco riconoscermi un po’ in loro. La differenza del colore delle razze è una cosa che ho capito sin dai primi anni di vita e per noi mezzosangue è proprio un discorso a parte: i negri non ci considerano loro simili ma neanche i bianchi ed è frequente che ambedue si diano da fare per farci sentire uno scherzo della natura. Qualche volta hanno fatto nascere in me il desiderio di morire. È buffo, incredibile: neanche questo è facile, anzi a volte è più difficile che lasciarsi vivere. La forza che ci fa morire è in noi, ma occorre un’arte ben consumata per provocarla. La mia rivolta alla voglia di morte l’ho sempre trovata nella musica, è stata sempre la mia arma di difesa, di preghiera, il riscatto dalla sofferenza. Però non ho ancora saputo trovare una mia normalità e sto ancora rincorrendo un po' di felicità. Vivo in un mondo mio sommerso di musica, che mi regala uno stato d’incoscienza continua, come se fossi sospeso sui filo di fumo del più poderoso dei joint, e mi dà la possibilità di attraversare le cose e guardare avanti solo alla ricerca della verità».


Ma cos’è questa verità che cerchi, questa scala che tenti di salire?


«Mi sono sentito tante volte vicino a Dio ed ho pensato di essere giunto alla meta. Poi, però, ci sono state delle circostanze che me ne hanno allontanato. È come se Lui volesse mettermi alla prova continuamente prima di accettare che io sieda ai suoi piedi. A volte L’ho sentito molto duro nei miei confronti, non mi ha risparmiato neanche una delle prove brucianti per le quali sono passate... Sono stato così spesso vicino all’inferno ma ho dovuto trovare sempre la forza di venirne fuori da solo».

Non mi sembra un’affermazione giusta detta da uno che è considerato il genio musicale dei nostri giorni e che guadagna cifre da capogiro...


«Ciò che mi succede è meraviglioso ma non è questa la mia beatitudine, io lo reputo il passaggio attraverso un inferno dalle sembianze piacevolmente ingannevoli ma poi giunge sempre il momento della verità... Quello che agli altri non è dato di vedere è tutta la merda attraverso la quale sono passato in tutti questi anni, e malgrado questo cerco ancora di arrivare a Lui, di arrivare alla verità. Quel giorno sarò in grado di dare agli altri molto più che la mia musica».

Ma oltre ad offrire un motivo d’evasione tu sei già molto di più per i giovani...


«Vuoi dire per i ragazzi di colore? Per un ragazzo che si afferma ce ne sono migliaia e migliaia con un futuro mediocre o addirittura tragico. Ma quel ragazzo che emerge per tutti gli altri è una speranza...».


Sei sempre circondato dagli specchi. Non è un fatto casuale perché so che è una tua precisa richiesta, eppure si dice che sia un’arma del demonio...


«Ho sempre avuto un debole per gli specchi e in particolare quelli a grandezza d’uomo. Per me è come se aldilà dell’immagine riflessa si aprisse tutto un mondo incantato. È come se ci fosse una porta tra due realtà: una visibile a tutti ed una seconda che si mostra solo ai miei occhi. A volte vi trascorro davanti dei periodi abbastanza lunghi, raramente per civetteria: sono sempre alla ricerca di me stesso, così mi può capitare di ritrovarmi in quell’immagine e di voler sfuggirvi per paura della realtà. È anche accaduto che assumesse le sembianze di un maestro con il non facile compito di insegnarmi ad accettare le mie paure, i miei difetti. Qualche volta mi sono specchiato e non mi sono riconosciuto o piaciuto. In quei momenti mi sono sentito il burattinaio di me stesso...».

Sul palco, nella scenografia che riporta uno spaccato di Broadway, ci sono due scritte ben distinte: “Sex” e “Love”... Dunque c’è differenza anche per uno come te, etichettato come il cantore del sesso sfrenato...


«Il sesso è un pacchetto di patatine da consumare in fretta, come fosse nel buio di un cinema. È un’esaltazione dei sensi come parte più scoperta e animale, quasi uno scontro violento tra maschio e femmina. L’amore va vissuto sulle ali degli angeli ma lo smog della città, la cortina di perfidia e di lussuria lo rendono introvabile... Mi è anche capitato di credermi a cavallo su quelle ali impalpabili ma ho dovuto ricredermi subito per non fare la fine di Icaro. L’amore è una cosa che cerco quasi quanto la strada della verità, ma ambedue racchiudono un’incognita che mi fa paura. Il sesso ha invece per me pochissimi lati sconosciuti... Passata la pubertà, quando cominciavo a sentire i primi morsi del desiderio, avevo alle spalle già la visione di tante avventure da postribolo, sono cresciuto praticamente per strada: un inferno sul quale, ancora bambino, volavo con ali insicure. Non ci sono state scoperte graduali, la mia verginità mi fu tolta molto presto ed accadde in modo così crudo che ancora oggi quando mi capita di pensarci mi vengono i brividi. La musica per me è stata come bagnarsi nell’acqua benedetta del battesimo, mi ha innalzato a cime raggiungibili solo da pochi eletti e mi ha posto su quell’altare dove l’immortalità la possono avere anche angeli dal colore scuro... La musica mi ha dato la possibilità di mutare il senso del racconto che la vita sembrava aver preparato per me. Mi ha dato la capacità di donare dei sogni ed io voglio essere quello più violento e più sconcertante per ogni sguardo: sia esso uomo o donna. Voglio che nella profondità del mio sguardo, nella sessualità del movimento del mio corpo tutti possano ritrovare, passo passo, il lento miracolo delle notti insonni. Dentro di me ancora non si è placato il desiderio di lasciare un segno indelebile come un marchio a fuoco, è ancora troppo vivo il ricordo di quando da bambino, mi sentivo un inutile e insignificante fardello, un pacco postale spedito da madre a padre, da zii a nonni ed amici, senza mittente perché non dovesse esserci un ritorno. Anche se con il tempo ho perdonato, però non ho cancellato l’idea di essere stato messo al mondo per ritrovarmi ai margini di una famiglia inesistente».

Ma è proprio questo tuo passato che dovrebbe spingerti a cercare un rapporto più profondo con gli altri! Invece sembri una persona molto sola ma anche senza molta voglia di comunicare con il tuo prossimo... Durante il tuo soggiorno italiano ti sono stati messi a disposizione alloggi principeschi in mezzo alla natura, eppure hai trascorso il tempo quasi sempre tra quattro pareti, come mai?


«Ogni essere umano ha una sua reazione alle cose; io ho paura di chi mi circonda e soprattutto dell’incognito. Durante una tournée, in particolare, non si ha molto tempo di familiarizzare né con luoghi e né con le cose e questo accresce il mio senso di solitudine, per questo ho l’abitudine di portare con me molte cose che mi sono care per non sentirmi completamente sradicato. Tra le tante, anche un televisore a 26 pollici ed uno schermo gigante su cui vedere i miei film ed i miei video preferiti».

Ho dato un’occhiata alle tue video cassette e ne ho scoperte due di concerti...


«Sì, le registrazioni dei concerti di Bruce Springsteen e Madonna, la più sensuale ed eccitante rockstar degli ultimi anni: mi piace tutto di lei. Ma c’è anche un’altra rappresentante del gentil sesso che mi piace anche se per motivi diversi e dovresti già essertene resa conto visto che mi stai sempre attorno».

Stai alludendo a Rossana Casale vero? Non fai che ascoltare “Destino”, una delle canzoni tratte dal suo album. In effetti è una cosa che mi ha molto incuriosita anche perché l’ascoltavi già al tuo arrivo...


«Ho sentito la registrazione del brano su una cassetta di un mio amico americano che viene frequentemente in Italia, me ne sono subito appropriato ed una volta giunto qui mi è servita per rintracciare l’album. Ero curioso di dare anche un volto ed un nome a quella voce. Mi piacerebbe produrla in America, ho saputo che parla bene l’inglese. Staremo a vedere».

Come fai a tenerti in forma?


«Per contratto sia in camerino che nel mio alloggio devono attrezzarmi una minuscola palestra. Non è un capriccio ma è il modo migliore per conservare la forma ed il fiato per affrontare il mio show...».

Ne hanno fatta di strada con te i Revolution. Come mai non sono più con te?


«Semplicemente non c’era più strada da percorrere insieme, si rompono i matrimoni, i rapporti tra padre e figlio, figuriamoci quelli di lavoro...».

Così pacato, così giudizioso... Eppure in tempi non lontani hai fatto di tutto perché ti calzasse a pennello il soprannome di “angelo perverso del rock” e tutt’ora, quando sei in scena non sembri certo un asceta. Ma tu, chi sei veramente?


«Non sono il diavolo, non sono un angelo, non sono una donna, non sono un uomo: sono una cosa che non capirai mai... » canticchia facendo il verso ad una sua canzone. Dopo avermi lanciato uno sguardo divertito, mi volta le spalle e se ne va ancheggiando!



di Vivì Zizzo B.
Tratta da Rockstar, ottobre 1987, N.85