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lunedì 1 gennaio 2018

Doonesbury, di Garry Trudeau: Una striscia su Donald Trump, un ricordo di Enzo Baldoni.



Una soap-opera. Forse un universo parallelo

Vi state occupando di storia o di sociologia americana? Allegri, c’è una buona notizia: finalmente potete disfarvi dei vostri libroni, delle vostre dispense, delle vostre collezioni di riviste specializzate.

E vai con la festa, Potrete lanciare dal sessantesimo piano il ponderoso Wedgwood, dopo averlo trasformato in una pioggia di striscioline che scendano planando giù giù fino alla Quinta Strada. Illuminare le notti di San Francisco con il rogo delle annate più recenti della American Review of Sociology. Varare nel Lago Michigan barchette leggere costruite con la solida carta dell’Abramson, del Toynbee, dell’Ebenstein. Salire su una mongolfiera colorata e lanciare all’attacco dell’Empire State Building squadriglie di aeroplanini di carta ricavati dai tre fondamentali tomi della Modem History of the United States of America. Trasformare gioiosamente in coriandoli le annate arretrate del New Yorker, di Rolling Stone, di Newsweek per coprire di una nevicata a colori i corrucciati testoni di pietra di Mount Rushmore.

Naturalmente terrete per voi le cose belle e leggere della vita: le foglie di Walt Whitman, le strade di Jack Kerouac, i mantra di Allen Ginsberg. Ma non vi occorrerà molto di più per capire come si sono evoluti, dagli Anni Settanta a oggi, la storia e il costume americano.

Perché finalmente è arrivato il più acuto, sorridente e divertente compendio integrato di storia e di sociologia dell’ultimo quarto di secolo: Flashbacks.

Esagero? Beh, sì. Un po’. Però...

Stiamo ai fatti. Il libro che avete tra le mani vi offre uno spaccato simbolico, affettuoso e sorridente ma estremamente acuto e penetrante della storia e della società americana.

Ci sono tutti: i bianchi, i neri, i gialli, i rossi, gli italiani, gli ebrei, i polacchi, gli studenti, gli operai, i telefonisti, i medici, gli handicappati, i disoccupati, gli economisti, i preti, i professori, gli avvocati, i poliziotti, gli agenti della CIA, quelli dell’FBI, i ricercatori di mercato, i giocatori di football, gli operatori di Borsa, i giornalisti, i rettori, i sindaci, i generali, gli spacciatori, gli agenti delle tasse, gli abbronzisti, i golfisti, i repubblicani, i democratici, i fascisti, i liberals, i radicals, i birdwatchers, i produttori di Hollywood, i drogati, gli idealisti, gli scoppiati, i vicini di casa, i genitori repressivi, i genitori fricchettoni, i genitori alcolizzati. Qualche gay.

Le cameriere di snack-bar, le affittacamere, le femministe, le deputate, le nere in carriera, le casalinghe, le artiste, le attricette, le scultrici, le ragazzine, le studentesse, le incinte, le schiave d’amore, le neomamme, le speranzose, le deluse, le debuttanti, le promettenti, le preminenti, le signore molto bene, le cameriere delle signore molto bene. Neanche una lesbica.

I Viet-Cong, i Viet-Vet, gli afghani, gli iraniani, gli israeliani, gli iracheni, i salvadoregni, i cinesi, Kissinger, Begin e Sadat, Bani Sadr, Elvis Presley, Deng Xiaoping, Mick Jagger, Baby Doc, Jane Fonda, Liz Taylor, Frank Sinatra, Donald Trump, Lee Iacocca, Bill Gates, un occasionale lupo mannaro.

E, intrecciate a tutto ciò, le ultime sette presidenze degli Stati Uniti.

Nixon, la presidenza aggressiva: i bombardamenti segreti sulla Cambogia, le grandi manifestazioni pacifiste, la rivoluzione sessuale, le prime comuni, la marijuana, l’LSD, la liberazione della donna, il ritiro delle truppe americane dal Vietnam, la rovina del Watergate.

Ford, la presidenza incolore (Gerry Ford è stato l’unico, nella storia, a non essere mai stato eletto né presidente né vicepresidente: in seguito a uno scandalo di bustarelle sostituì il vicepresidente Spiro Agnew. Un anno dopo, lo scandalo Watergate lo proiettò sulla poltrona di Nixon). Che diavolo è successo durante il suo mandato? Qualcuno si ricorda qualcosa, a parte il fatto che inciampava dappertutto e la partecipazione di Zonker ai mondiali di abbronzaggio? Ah, già, la caduta di Saigon.

Carter, la presidenza velleitaria: la decadenza dell’immagine internazionale degli USA, la depressione economica, l’intervento russo in Afghanistan, l’intervento cubano in Angola, la caduta dello Scià di Persia, l’ascesa di Komeini, la beffa degli ostaggi americani in Iran, la perdita di fiducia nel sogno americano.

Reagan, la presidenza fortunata: gli scintillanti Anni Ottanta, l’ottimismo ritrovato, le ristrutturazioni selvagge, i successi di Borsa, la mini-invasione di Grenada, i party di Washington, l’esplosione delle filosofie new age, il bluff delle guerre stellari, Gorbaciov, la perestrojka, il problema dei senza- tetto, la caduta delle ideologie.

Bush, la presidenza sottotono: il ritorno della recessione dopo gli sperperi reaganiani, la perdita di posti di lavoro, il tramonto delle sicurezze della middle class, l’AIDS, la fine della guerra fredda, la caduta del Muro di Berlino, il massacro di Tien An Men. Solo la guerra del Golfo, coi suoi telegenici completini da deserto, riuscì a dare visibilità all’Uomo Invisibile.

E infine Clinton, la presidenza altalenante: le speranze deluse di un Kennedy mancato, i cambiamenti profondi nell'organizzazione del lavoro, gli scandali, i primi attentati terroristici sul suolo americano, i suicidi di massa delle sette religiose, l’esplosione di Internet e delle autostrade elettroniche, la guerra in Bosnia e in Albania, i ponti di Madison County, il processo a O.J. Simpson.

Sullo sfondo, tutti i cambiamenti della società occidentale: dalla televisione in bianconero ai milioni di colori di Internet; dalla famiglia nucleare alla famiglia policentrica; dagli hippies agli yuppies; dalla voglia di cambiare il mondo al cinismo diffuso; dai freaks ai nerds; dalle canzoni di protesta al rap; dall’amore libero alla paura dell’AIDS; dal babyboom alla new age; dal posto garantito a vita alla flessibilità del lavoro; dai primi spinelli all’ecstasy. Da «stasera bruciamo i reggiseni» a «stasera mi metto il wonderbra».

È un po’ per tutto questo che Doonesbury non è una striscia normale, che si conclude ogni giorno nelle quattro vignette canoniche e morta lì. Pian piano, anno dopo anno, seguendo il filo delle vicende politiche, dei cambiamenti sociali e delle storie personali, la striscia è cresciuta, si è arricchita, è diventata sempre più complessa.

A tutt’oggi conta ben 7 protagonisti, 15 comprimari, una cinquantina di personaggi secondari e più di 350 personaggi apparsi a vario titolo. È diventata una soap-opera: una grande soap-opera in cui i protagonisti si sposano, si lasciano, si perdono, si ritrovano, si amano, si fanno del male in un tourbillon di vite che si intersecano di continuo. C’è perfino il primo personaggio gay che appaia su un fumetto mainstream, Andy Lippincott, che, per giunta, muore di AIDS.

È la più complicata, arzigogolata e intricata soap-opera mai fumettata. Ma anche la più intrisa di umana pietà, di sensibilità, di passione civile.

L’approccio di Trudeau verso i difetti della società e le debolezze umane è acuto e tagliente ma conserva sempre un’ironia leggera, un tocco delicato e affettuoso (vogliamo chiamarlo, onore a Lubitsch, il Trudeau touch?) che penetra più a fondo del semplice, facile e in fondo antipatico sarcasmo. Guardate come tratteggia i suoi personaggi. Non sono caricature, sono ritratti. Hanno spessore. Mike, Joanie, Mark, Zonker, Boopsie sono umani, imperfetti, credibili. Vivono di vita propria, amano, muoiono, si sposano, si mettono le corna, si lasciano, scappano, mettono al mondo figli, si annoiano davanti alla televisione, ridono, piangono, soffrono, sono allegri o depressi, hanno tutti i tic, le manie, le passioni e i difetti delle società occidentali.

Sono come noi, come le persone che incontriamo nella vita di ogni giorno. Per questo è così facile identificarci con loro. Per questo ci sorprendiamo a simpatizzare coi problemi coniugali di Mike e J.J., a fare il tifo per Zonker che rifiuta di diventare adulto, a soffrire per Mark che fatica a tirar fuori dall’armadio la propria omosessualità.
Per questo, forse, Doonesbury è qualcosa di più di una soap-opera.

Forse è un universo parallelo, fatto di vite comuni, imperfette e a volte un po’ sdrucite. Così vere da somigliare tanto alle nostre.

Chapeau, Mr. Trudeau.

Enzo G. Baldoni

(postfazione da Flashbacks, Il meglio di Doonesbury dagli anni '70 a oggi, Ed. Baldini & Castoldi, 1995)


Qualche parola dall’autore

In un momento non ben specificato della vita, ma comunque nei dintorni della mezza età, si comincia a prestare sempre più attenzione ai complimenti. E ci si aggrappa ad ognuno di essi come se fosse l’ultimo. «Che bei cappelli», ad esempio, assume lo stesso valore di «Che idea geniale!». In termini di crescita personale è un significativo passo avanti rispetto alla sensazione di sottile inganno che accompagna il pur minimo elogio tributato ai piccoli trionfi di gioventù. Superato del tutto il pericolo di diventare un bambino prodigio, con le opportunità che ti si chiudono via via alle spalle come porte d’acciaio, diventa necessario trovare nei complimenti degli altri qualche indizio — anche minimo — che la tua vita è stata spesa nel modo migliore. O almeno al massimo delle tue potenzialità.

A dire il vero il massimo della potenzialità è sempre stata la mia via di fuga. So bene cos’è una vita di sani principi — molti nella mia famiglia hanno cercato di condurne una — ma credo proprio di aver scelto una strada più tortuosa. Dico più tortuosa perché chiunque può essere amato (beh, forse non proprio chiunque, ma chi è disposto a dedicare cinquant’anni della propria vita al servizio del prossimo forse ci riesce). È molto più difficile, invece di condurre una vita veramente dedicata alla collettività, sembrar parte di quella vita. È la menzogna che salva la pelle di chi scrive sui giornali. Purtroppo, nel caso del cartoonist politico, la gente ha già mangiato la foglia da un pezzo. Una delle mie vignette satiriche preferite, realizzata alcuni anni fa dal compianto B. Kliban, mostrava un cartoonist a passeggio, elegantissimo in foulard e giacca da camera, una donnina poco vestita appesa ad ogni braccio e un poliziotto che apre la strada al corteo, cacciando ai lati il popolo bue. Il poliziotto sbatte un povero pedone in mezzo al traffico, sbraitando: «Fai strada, maiale — arriva un cartoonist!».

Il gioco, naturalmente, sta tutto nel fatto che la società non ha il minimo rispetto per i cartoonist. Nella realtà capita spesso che un mio lettore mi abbordi con la frase: «Mi piace così tanto il suo... la sua... rubrica», coronando l’approccio con quell’espressione di sollievo tipica di chi è riuscito ad esprimere la propria ammirazione per il lavoro di un altro risparmiando ad entrambi la pena di nominarlo.

Perché un’arte che ha secoli di storia come l’illustrazione satirica viene considerata con tanto disprezzo? Beh, in parte perché lo merita. È un’arte che, dovendo raggiungere un pubblico vastissimo, deve ricorrere alla volgarità. Qualsiasi cartoonist europeo sotto contratto con un syndicate potrebbe confermarlo — se solo ce ne fosse uno. Perché il mondo delle Belle Arti sa perfettamente, ma non lo vuole ammettere, che fare il ruffiano è molto più difficile di quel che sembra a parole. Se non fosse così qualsiasi artista da quattro soldi sarebbe ricco e famoso, e nessuno chiederebbe finanziamenti al National Endowment of Arts.

L’altra ragione della poca considerazione in cui è tenuto il mio mestiere risiede, penso, nella sua natura deliziosamente ed essenzialmente effimera. Chi legge il giornale di ieri? Le vittime del cartoonist — scelte nelle storie del giorno — vengono travolte in fretta, di solito, dall’incedere maestoso della Storia. E ancora: i cattivi devono essere puniti al volo. Mettere qualcuno alla berlina è socialmente utile, solo se lo si fa al momento giusto. C’è un filone di satira garbata che preferisce risparmiare l’individuo ed attaccare piuttosto il vizio in generale. È una satira che è più corretto definire umorismo: basta ascoltare la voce della gente e limare un po’ quel che è troppo crudo, C’è un certo tipo di battuta alla Will Rogers — quell’umiliare con affetto i politici per l’ipocrisia e gli avvocati per l’avidità — che è in realtà profondamente cinico: attaccare un’intera categoria non lascia spiragli per la speranza.

Questo basta, credo, a spiegare la mia preferenza per gli attacchi individuali. Preferisco prendermela direttamente con Dan Rostenkowski o Johnny Cochran, perché è una satira che sottintende che la vita la facciamo noi con le nostre scelte, e che la loro morale non è la morale di tutti.

Mort Sahl racconta di essere andato da uno degli autori del Saturday Night Live quand’era ancora una trasmissione giovane e impetuosa. Era in programma un attacco a Kissinger e Sahl, che teneva un ampio archivio delle malefatte del Segretario di Stato, chiese timidamente all’autore perché se la prendeva con Kissinger. «Perché è al potere», rispose quello, compiaciuto. Tutto lì. Non per il Vietnam. Non per il Cile. Non per i bombardamenti segreti in Cambogia. Solo per il desiderio infantile di fare le boccacce a qualcuno munito di un po’ d’autorità.

Certo, è una cosa che funziona: l’umorismo che fa terra bruciata attorno a qualcuno è nato più o meno in quell’epoca e popola tuttora buona parte dell’industria dell’entertainment. Ma a Sahl — e al sottoscritto — è sempre sembrata un’occasione persa, un vero peccato che una satira così pungente, caustica e tagliente non puntasse un po’ più in alto, non cercasse di far scoccare una scintilla nelle teste del pubblico. Ma quel che è più grave è che un umorista senza umiltà, che galleggia sopra al resto del mondo come un petalo di rosa, finisce per mancare il bersaglio più grosso di tutti — se stesso. Un bersaglio da cui i grandi — Mark Twain, Woody Allen, Jules Feiffer — non hanno mai spostato la mira. Quando Walt Kelly scriveva: «Abbiamo incontrato il nemico e siamo noi», cercava di dirci che la comédie humaine non risparmia nessuno, che siamo tutti insieme sulla stessa barca piena di buchi — questa.

Ecco perché in Doonesbury vivono personaggi d’ogni tipo, non solo politici. Perché ho bisogno di controfigure, di rappresentazioni fedeli della confusione che in me regna sovrana. Come dice Steve Martin, non si ride delle cose piacevoli. E sono venticinque anni che il mio mestiere è far ridere. La strip rimane un work in progress, una cronaca imperfetta dell’umana imperfezione. Sono in tanti a non poter sfuggire ad una parte di responsabilità in questa impresa: a tutti loro vanno i miei ringraziamenti più profondi. Fra loro ci sono mia moglie, Jane; il mio assistente alle chine e amico di lungo corso, Don Carlton; la mia cassa di risonanza nonché book editor, David Stanford; il mio strip-editor nonché bastione umano, Lee Salem; Mike Seeley, che guida il mio studio con deliziosa efficienza; e naturalmente Kathy Andrews e tutta la grande famiglia di amici e colleghi dell’Universal Press Syndicate. Se lascio fuori da questo elenco il mio boss, John McMeel, è per la migliore delle ragioni: siamo ancora nel bel mezzo delle trattative per il prossimo contratto.

Garry Trudeau
18 Ottobre 1995

(prefazione da Flashbacks, Il meglio di Doonesbury dagli anni '70 a oggi, Ed. Baldini & Castoldi, 1995)




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Bio: Garry Trudeau
Garretson Beekman Trudeau (New York, 21 luglio 1948) è un fumettista statunitense.

Ha frequentato l'Università di Yale verso la fine degli anni sessanta ed è lì che ha creato la sua opera più famosa, la striscia a fumetti Doonesbury, che era intitolata Bull Tales nelle prime edizioni.
Doonesbury è oggi pubblicata su quasi 1400 tra quotidiani e riviste nel mondo.
Trudeau è stato il primo disegnatore di fumetti a vincere un premio Pulitzer, nel 1975. Ha vinto anche un premio Oscar nella categoria dei cortometraggi animati con il film A Doonesbury Special.
Oltre alla striscia, Trudeau ha scritto commedie (Rap Master Ronnie e a Doonesbury musical) e la mini-serie televisiva Tanner '88, diretta da Robert Altman nel 1988.
Trudeau non appare spesso in pubblico. L'unica sua comparsa televisiva risale al 1971, dove in una puntata del quiz To Tell the Truth tutti i concorrenti tranne uno non riuscirono ad indovinare chi fosse.
Nel 2004 Trudeau, tramite la striscia a fumetti, ha messo a disposizione un premio di 10.000 dollari per chiunque portasse prova inconfutabile che George W. Bush avesse assolto ai suoi doveri militari negli anni settanta.
Nel 2013 ha ideato la serie televisiva Alpha House, prodotta e pubblicata da Amazon.com.


Bio: Enzo Baldoni
Enzo Baldoni (Città di Castello, 8 ottobre 1948 – Iraq, 26 agosto 2004) è stato un pubblicitario e giornalista italiano.

Baldoni svolgeva principalmente l'attività di copywriter presso la propria società Le Balene Colpiscono Ancora. Svolgeva inoltre volontariato presso la Croce Rossa.

Tra le passioni anche quella dei fumetti, di cui era un traduttore appassionato e accanito lettore. Tra le edizioni italiane da lui curate figurano le strisce a fumetti prodotte dal francese Gérard Lauzier e dagli statunitensi Garry B. Trudeau e Frank Miller. Partito dalle colonne delle riviste Linus e Corto Maltese, e inseguendo la propria passione per i viaggi, si ritrovò in breve tempo a scrivere di terzomondismo, guerriglieri, e situazioni estreme, seguendo il proprio pacifismo.

Collaborò con Diario, Specchio della Stampa, il Venerdì di Repubblica e altri periodici. Fra le sue passioni più tarde, Internet e i blog, ai quali dava un taglio giornalistico e dissacrante.

In Iraq come giornalista freelance, venne rapito presso Najaf il 21 agosto 2004 dall'Esercito islamico dell'Iraq, una sedicente organizzazione fondamentalista musulmana ritenuto genericamente legata ad al-Qaida. Dopo un ultimatum all'Italia per il suo ritiro di tutte le truppe entro 48 ore, venne ucciso: la data esatta e il luogo della morte non sono però mai stati accertati.

Tra i primi autori italiani a ricorrere al blog, associò la sua conoscenza del mondo pubblicitario in termini di comunicazione efficace, concisa e corretta, alla sua esperienza nell'utilizzo delle tecniche informatiche e delle dinamiche delle comunità virtuali. Era solito far passare concetti crudi in forma lieve e dissacrante. Usava accompagnare i testi dalle numerose fotografie di cui generalmente era autore egli stesso, nelle vesti di fotoreporter.

I suoi blog hanno spaziato da Timor Est alla Colombia, da Cuba all'Iraq.
Il suo nickname nel mondo digitale e nei suoi blog era Zonker, preso dall'omonimo personaggio della striscia fumettistica Doonesbury di Trudeau, del quale Baldoni curava la traduzione italiana. La più famosa mailing list da lui creata si chiama infatti Zonker's Zone. Blog Paralleli è l'unico ancora online.

L'eventualità di morire in Iraq
In nessun blog aveva postulato come possibile la propria morte in uno dei suoi viaggi, ma il primo giorno di attività del suo blog iracheno (Bloghdad), scrisse:
« Si è parlato molto di morte in questi giorni: della morte serena di Zio Carlo, filosofo e yogi, che forse sapeva la data del suo trapasso. Guardando il cielo stellato ho pensato che magari morirò anch'io in Mesopotamia, e che non me ne importa un baffo, tutto fa parte di un gigantesco divertente minestrone cosmico, e tanto vale affidarsi al vento, a questa brezza fresca da occidente e al tepore della Terra che mi riscalda il culo. L'indispensabile culo che, finora, mi ha sempre accompagnato. »

Sulla morte e anche sul suo funerale Baldoni ritornò più volte, sia in e-mail personali che successivamente sono state pubblicate, sia in dichiarazioni pubbliche. Come per esempio in un intervento nella mailing list che gestiva:

« Vorrei che tutti fossero vestiti con abiti allegri e colorati. Vorrei che, per non più di trenta minuti complessivi, mia moglie, i miei figli, i miei fratelli e miei amici più stretti tracciassero un breve ritratto del caro estinto, coi mezzi che credono: lettera, ricordo, audiovisivo, canzone, poesia, satira, epigramma, haiku. Ci saranno alcune parole tabù che assolutamente non dovranno essere pronunciate: dolore, perdita, vuoto incolmabile, padre affettuoso, sposo esemplare, valle di lacrime, non lo dimenticheremo mai, inconsolabile, il mondo è un po' più freddo, sono sempre i migliori che se ne vanno e poi tutti gli eufemismi come si è spento, è scomparso, ci ha lasciati. Il ritratto migliore sarà quello che strapperà più risate fra il pubblico. Quindi dateci dentro e non risparmiatemi. Tanto non avrete mai veramente idea di tutto quello che ho combinato. Poi una tenda si scosterà e apparirà un buffet con vino, panini e paninetti, tartine, dolci, pasta al forno, risotti, birra, salsicce e tutto quel che volete.
Vorrei l'orchestra degli Unza, gli zingari di Milano, che cominci a suonare musiche allegre, violini e sax e fisarmoniche. Non mi dispiacerebbe se la gente si mettesse a ballare. Voglio che ognuno versi una goccia di vino sulla bara, checcazzo, mica tutto a voi, in fondo sono io che pago, datene un po' anche a me. Voglio che si rida – avete notato? Ai funerali si finisce sempre per ridere: è naturale, la vita prende il sopravvento sulla morte – . E si fumi tranquillamente tutto ciò che si vuole. Non mi dispiacerebbe se nascessero nuovi amori. Una sveltina su un soppalco defilato non la considererei un'offesa alla morte, bensì un'offerta alla vita. Verso le otto o le nove, senza tante cerimonie, la mia bara venga portata via in punta di piedi e avviata al crematorio, mentre la musica e la festa continueranno fino a notte inoltrata. Le mie ceneri in mare, direi. Ma fate voi, cazzo mi frega. Basta che non facciate come nel Grande Lebowski. »

martedì 23 maggio 2017

Campofame, di Andrea Pazienza - dal poema di Robinson Jeffers

Andrea Pazienza (23 maggio 1956 San Benedetto del Tronto, 16 giugno 1988 Montepulciano)

Nel maggio del 1987, in pieno gorgo adolescenziale e lettore onnivoro, mi capita tra le mani questa misteriosa opera di Andrea Pazienza. Appare a puntate su una rivista di fumetti che, insieme a Ken Parker, era tributo mensile al mondo dei disegni: Comic Art (in quel numero anche Will Eisner e Magnus).
I disegni, ancora più densi e cupi del solito, si annodano a un poema scarno, dalle liriche semplici eppure così potenti da emozionarmi. Nella paura di perdere quei fogli, incomincio a ricopiare su un quaderno il poema di questo autore allora sconosciuto, Robinson Jeffers. Seguo il filo dell'emozione e uso una penna rossa, come la palette preminente - insieme al blu fondo, vene e arterie - usata da Paz:


“Campofame” è la storia dell’uomo che uccise la morte e delle conseguenze di questo atto impossibile. Nel 1987 il poeta Moreno Miorelli spedisce a Pazienza le fotocopie del poema di Robinson Jeffers e Andrea inizia a lavorare alla storia. L’esito è un viaggio duro che, nella prima parte, affida a rare didascalie il difficile compito della narrazione e a un segno ricco e maturo il compito di raffigurare le visionarie immagini di Jeffers. Quasi muto il surreale corpo a corpo fra Campofame e il Mietitore; cupo il tratto, con colori spessi a iscurire la tavola. Rari tagli di luce illuminano Campofame, mentre il rosso del sangue si sparge sempre più lucido fra i disegni. Quando avviene l’impossibile sulla terra non muore più nessuno, ma nessuno lo ringrazierà per questo. Persino la vecchia madre, per la quale ha lottato con la Morte, si rivolterà dura contro di lui, rivelandogli l’inferno che è la sua vita al netto della pietose bugie.
Campofame esce sulla rivista di Rinaldo Traini “Comic Art” e viene stampata in volume su “Zanardi e altre storie” e poi come titolo a sé dalla Edizioni Di nel 2001. Quest’ultimo volume raccoglie “Campofame”, i disegni realizzati da Paz per il poema “Tre canti” dell’amico Miorelli e la “Testimonianza” di quest’ultimo sul suo rapporto con Andrea Pazienza.

(dalla presentazione del volume dell'editore Edizioni Di, Castiglione del lago, 2001)















John Robinson Jeffers (Allegheny City, 10 gennaio 1887Carmel-by-the-Sea, 20 gennaio 1962) è stato un poeta statunitense.

Molte delle opere di Jeffers sono scritte in forma epica o narrativa, ma lui è anche conosciuto per le sue poesie in versi brevi ed è considerato un'icona del movimento ecologista. Considerato autorevole in alcuni ambienti, nonostante - o proprio a causa - della sua filosofia "In-Umanista", Jeffers crede che il conflitto trascendentale ha bisogno della conoscenza e dell'interessamento degli esseri umani, per essere de-enfatizzato in favore del'immensa totalità. Questo lo ha portato ad opporsi alla partecipazione degli Stati Uniti d'America nella Seconda Guerra Mondiale, salvo poi assumere una posizione controversa dopo la suddetta entrata.
Jeffers ha coniato la locuzione philosophy of inhumanism, con la convinzione che l'umanità è troppo egocentrica, troppo incentrata su sé stessa, e quindi troppo indifferente alla «stupefacente bellezza delle cose». La sua poetica è basata sul risentimento contro l'umanità che ha trasformato la Terra in un teatro di sanguinosa violenza.
Nella sua opera The Double Axe and Other Poems (trad. it. La bipenne e altre poesie, Guanda, 1969) Jeffers esplica la descrizione dell'In-Umanismo come «un traslamento di enfasi e significato dall'Uomo al non-Uomo; il rifiuto dell'umano solipsismo e il riconoscimento della magnificenza trans-umana... Questo modo di pensare e sentire non è né misantropico né pessimista... Offre un ragionevole distacco alle norme di comportamento: invece di amore, odio, invidia, ecc. fornisce magnificenza per l'istinto religioso e soddisfa il nostro bisogno di ammirare la grandezza e rallegrarci per la bellezza».[1]



Luca Tanchis

venerdì 20 aprile 2012

Unisci i puntini - Elementi pop di storia # 02 Palestina, di Joe Sacco


Elementi pop di storia # 02: Palestina, di Joe Sacco

Joe Sacco (Chircop, 2 ottobre 1960) è un fumettista maltese, che vive e lavora negli Stati Uniti. Combina il lavoro di fumettista con quello di giornalista. Interessato a scenari di guerra, ha disegnato opere sul conflitto palestinese (Palestine) e anche sulla guerra serbo bosniaca (Safe Area Goražde, Neven). 
Nel 2010 è stato pubblicato il suo ultimo lavoro ancora una volta sul dramma della popolazione palestinese: "Gaza 1956". Tra la fine del 1991 e l'inizio del 1992 Joe Sacco ha trascorso due mesi in Israele e nei Territori Occupati, viaggiando e prendendo appunti. Ha vissuto nei campi palestinesi, condividendone la vita (o meglio, la loro sopravvivenza) in mezzo al fango, in baracche di lamiera arrugginita, tra coprifuoco e retate dell'esercito israeliano. Risultato del suo meticoloso lavoro d'inchiesta è questo volume che, combinando la tecnica del reportage di prima mano con quella della narrazione a fumetti, riesce a dare espressione a una realtà tanto complessa e coinvolgente come quella del Medio Oriente. 
E’ un reportage lontano dalle luci dei riflettori, che ci porta all’interno della prima Intifada palestinese.




Palestina, di Joe Sacco, Traduttore: D. Brolli, Ed. Mondadori, 2006

lunedì 2 maggio 2011

Moebius: Garage contemporaneo

«Sì, mi piace molto teorizzare su tutto quel che accade nel mondo», dice. «Ma non sono mai riuscito a estrarre da questo caos, da questa massa d'informazioni, qualcosa da privilegiare. E il mio lavoro è più un tentativo di sintesi di quel che immagazzino sul mondo circostante. Abbiamo l'illusione della nostra presenza in Tunisia, ad Haiti...e passiamo il tempo a colmare questa illusione del reale mediante il nostro immaginario. Sappiamo di non essere lì, di non essere le vittime di quelle tragedie, ma ugualmente ci proviamo, grazie a tutto il materiale che immagazziniamo, con il cinema, la letteratura, la televisione. Immagazziniamo enormi riserve di realtà in scatola, pronte per essere dirottate nella zona sensazioni. Siamo nella fantascienza, nella misura in cui, da qualche decennio ormai, non si vive più esclusivamente su scala locale: viviamo, senza forse averne sempre consapevolezza, in quanto "terrestri". Questa espansione della coscienza ha una sua contropartita: ovvero che le sensazioni si sono un po' diluite. Non si ha la stessa densità quando si corre in un territorio così vasto rispetto a quando si é concentrati sul proprio villaggio, sul proprio quartiere. Di fatto, più ci si estende e più si diventa porosi e inconsistenti». Dissoluzione, ancora. «Esatto. Il lavoro estetico, oggi, è vittima proprio di questo: gli artisti per la maggior parte si cimentano in opere "distese". Ma se sei un artista e ti vuoi far conoscere, devi lavorare per il "pianeta", per un'arte delocalizzata. Come tutti coloro che fanno dell'arte commerciale, io mi sento un po' strano in questo contesto, perché l'artista commerciale non esiste in quanto persona, ma in quanto savoir-faire. Dev'essere estremamente flessibile, adattarsi a un pubblico: non ha la possibilità nè la capacita di essere universale in maniera deliberata. Lo può divenire, ma come un paesano che non è mai uscito dal suo villaggio. E che dunque ricrea della densità localizzandosi».



(Frammento di un intervista tratta da Rolling Stone, Marzo 2011)