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martedì 23 maggio 2017

Campofame, di Andrea Pazienza - dal poema di Robinson Jeffers

Andrea Pazienza (23 maggio 1956 San Benedetto del Tronto, 16 giugno 1988 Montepulciano)

Nel maggio del 1987, in pieno gorgo adolescenziale e lettore onnivoro, mi capita tra le mani questa misteriosa opera di Andrea Pazienza. Appare a puntate su una rivista di fumetti che, insieme a Ken Parker, era tributo mensile al mondo dei disegni: Comic Art (in quel numero anche Will Eisner e Magnus).
I disegni, ancora più densi e cupi del solito, si annodano a un poema scarno, dalle liriche semplici eppure così potenti da emozionarmi. Nella paura di perdere quei fogli, incomincio a ricopiare su un quaderno il poema di questo autore allora sconosciuto, Robinson Jeffers. Seguo il filo dell'emozione e uso una penna rossa, come la palette preminente - insieme al blu fondo, vene e arterie - usata da Paz:


“Campofame” è la storia dell’uomo che uccise la morte e delle conseguenze di questo atto impossibile. Nel 1987 il poeta Moreno Miorelli spedisce a Pazienza le fotocopie del poema di Robinson Jeffers e Andrea inizia a lavorare alla storia. L’esito è un viaggio duro che, nella prima parte, affida a rare didascalie il difficile compito della narrazione e a un segno ricco e maturo il compito di raffigurare le visionarie immagini di Jeffers. Quasi muto il surreale corpo a corpo fra Campofame e il Mietitore; cupo il tratto, con colori spessi a iscurire la tavola. Rari tagli di luce illuminano Campofame, mentre il rosso del sangue si sparge sempre più lucido fra i disegni. Quando avviene l’impossibile sulla terra non muore più nessuno, ma nessuno lo ringrazierà per questo. Persino la vecchia madre, per la quale ha lottato con la Morte, si rivolterà dura contro di lui, rivelandogli l’inferno che è la sua vita al netto della pietose bugie.
Campofame esce sulla rivista di Rinaldo Traini “Comic Art” e viene stampata in volume su “Zanardi e altre storie” e poi come titolo a sé dalla Edizioni Di nel 2001. Quest’ultimo volume raccoglie “Campofame”, i disegni realizzati da Paz per il poema “Tre canti” dell’amico Miorelli e la “Testimonianza” di quest’ultimo sul suo rapporto con Andrea Pazienza.

(dalla presentazione del volume dell'editore Edizioni Di, Castiglione del lago, 2001)















John Robinson Jeffers (Allegheny City, 10 gennaio 1887Carmel-by-the-Sea, 20 gennaio 1962) è stato un poeta statunitense.

Molte delle opere di Jeffers sono scritte in forma epica o narrativa, ma lui è anche conosciuto per le sue poesie in versi brevi ed è considerato un'icona del movimento ecologista. Considerato autorevole in alcuni ambienti, nonostante - o proprio a causa - della sua filosofia "In-Umanista", Jeffers crede che il conflitto trascendentale ha bisogno della conoscenza e dell'interessamento degli esseri umani, per essere de-enfatizzato in favore del'immensa totalità. Questo lo ha portato ad opporsi alla partecipazione degli Stati Uniti d'America nella Seconda Guerra Mondiale, salvo poi assumere una posizione controversa dopo la suddetta entrata.
Jeffers ha coniato la locuzione philosophy of inhumanism, con la convinzione che l'umanità è troppo egocentrica, troppo incentrata su sé stessa, e quindi troppo indifferente alla «stupefacente bellezza delle cose». La sua poetica è basata sul risentimento contro l'umanità che ha trasformato la Terra in un teatro di sanguinosa violenza.
Nella sua opera The Double Axe and Other Poems (trad. it. La bipenne e altre poesie, Guanda, 1969) Jeffers esplica la descrizione dell'In-Umanismo come «un traslamento di enfasi e significato dall'Uomo al non-Uomo; il rifiuto dell'umano solipsismo e il riconoscimento della magnificenza trans-umana... Questo modo di pensare e sentire non è né misantropico né pessimista... Offre un ragionevole distacco alle norme di comportamento: invece di amore, odio, invidia, ecc. fornisce magnificenza per l'istinto religioso e soddisfa il nostro bisogno di ammirare la grandezza e rallegrarci per la bellezza».[1]



Luca Tanchis

lunedì 22 maggio 2017

L'arancia di Bruno Munari


L’oggetto è costituito da una serie di contenitori modulati a forma di spicchio, disposti circolarmente attorno a un asse verticale, al quale ogni spicchio appoggia il suo lato rettilineo mentre tutti i lati curvi volti verso l’esterno, danno nell’assieme come forma globale, una specie di sfera.


L’insieme di questi spicchi è raccolto in un imballaggio ben caratterizzato sia come materia sia come colore: abbastanza duro alla superficie esterna e rivestito con un’imbottitura morbida interna di protezione tra l’esterno e l’assieme dei contenitori. Il materiale usato è tutto della stessa natura, in origine, ma si differenzia in modo appropriato secondo la funzione. L’apertura dell’imballaggio avviene in modo molto semplice e quindi non si rende necessario uno stampato allegato con le illustrazioni per l’uso. Lo strato d’imbottitura ha anche la funzione di creare una zona neutra tra la superficie esterna e i contenitori così che, rompendo la superficie, in qualunque punto, senza bisogno di calcolare lo spessore esatto di questa, è possibile aprire l’imballaggio e prendere i contenitori intatti. Ogni contenitore è a sua volta formato da una pellicola plastica, sufficiente per contenere il succo, ma naturalmente abbastanza manovrabile. Un debolissimo adesivo tiene uniti gli spicchi tra loro per cui è facile scomporre l’oggetto nelle sue varie parti tutte uguali. L’imballaggio, come si usa oggi, non è da ritornare al fabbricante ma si può gettare.
Qualcosa va detto sulla forma degli spicchi: ogni spicchio ha esattamente la forma della disposizione dei denti nella bocca umana per cui, una volta estratto dall’imballaggio si può appoggiare tra i denti e con una leggera pressione, romperlo e mangiare il succo. Si potrebbe anche, a questo proposito considerare come i mandarini siano una specie di produzione minore, adatta specialmente ai bambini, avendo lo spicchio più piccolo. Oggi purtroppo con l’uso delle macchine spremitrici tutto viene confuso e gli adulti mangiano il cibo dei bambini e viceversa.


Di solito, gli spicchi, contengono oltre al succo, un piccolo seme della stessa pianta: un piccolo omaggio che la produzione offre al consumatore nel caso che questi volesse avere una produzione personale di questi oggetti. Notare il disinteresse economico di una simile idea e per contro il legame psicologico che ne nasce tra consumatore e produzione: nessuno, o ben pochi, si mettono a seminare aranci, però l’offerta di questa concessione altamente altruista, l’idea di poterlo fare, libera il consumatore dal complesso di castrazione e stabilisce un rapporto di fiducia autonoma reciproca. Gesto cordiale e signorile, non come certi produttori contemporanei che offrono una mucca a chi compra venticinque grammi di formaggio.
L’arancia quindi è un oggetto quasi perfetto dove si riscontra l’assoluta coerenza tra forma, funzione, consumo.
Persino il colore è esatto, in blu sarebbe sbagliato.
Tipico oggetto di una produzione veramente di grande serie e a livello internazionale dove l’assenza di qualunque elemento simbolico espressivo legato alla moda dello styling o dell’estètique industrielle, di qualunque riferimento a figuratività sofisticate, dimostrano una conoscenza di progettazione difficile da riscontrare nel livello medio dei designer. Unica concessione decorativa, se così possiamo dire, si può considerare la ricerca “materica” della superficie dell’imballaggio trattata a “buccia d’arancia”. Forse per ricordare la polpa interna dei contenitori a spicchio, comunque un minimo di decorazione, tanto più giustificata come in questo caso, dobbiamo ammetterla.


(Good Design, Bruno Munari, 1963)
(riedito da Corraini Edizioni, 2014)






Disegnare un albero - Zanichelli (1977)
Fantasia - Editori Laterza (2006)
Da cosa nasce cosa - Editori Laterza (2010)


Aldo Tanchis, L'arte anomala di Bruno Munari, Laterza 1981
Bruno Munari: Design As Art (prossimamente in ristampa sempre presso Corraini Edizioni)

Bruno Munari (Milano, 24 ottobre 1907Milano, 29 settembre 1998) è stato un artista, designer e scrittore italiano.
È stato "uno dei massimi protagonisti dell'arte, del design e della graficadel XX secolo"[1], dando contributi fondamentali in diversi campi dell'espressione visiva (pittura, scultura, cinematografia, disegno industriale, grafica) e non visiva (scrittura, poesia, didattica) con una ricerca poliedrica sul tema del movimento, della luce e dello sviluppo della creatività e della fantasia nell'infanzia attraverso il gioco.
Bruno Munari è figura leonardesca tra le più importanti del novecento italiano. Assieme allo spaziale Lucio Fontana, Bruno Munari il perfettissimo domina la scena milanese degli anni cinquanta-sessanta; sono gli anni del boom economico in cui nasce la figura dell'artista operatore-visivo che diventa consulente aziendale e che contribuisce attivamente alla rinascita industriale italiana del dopoguerra.
Munari partecipa giovanissimo al futurismo, dal quale si distacca con senso di levità ed umorismo, inventando la macchina aerea (1930), primo mobile nella storia dell'arte, e le macchine inutili (1933). Nel 1948 fonda il MAC (Movimento Arte Concreta) assieme a Gillo Dorfles, Gianni Monnet e Atanasio Soldati. Questo movimento funge da coalizzatore delle istanze astrattiste italiane prospettando una sintesi delle arti, in grado di affiancare alla pittura tradizionale nuovi strumenti di comunicazione ed in grado di dimostrare agli industriali e agli artisti-artisti la possibilità di una convergenza tra arte e tecnica. Nel 1947 realizza Concavo-convesso, una delle prime installazioni nella storia dell'arte, quasi coeva, benché precedente, all'ambiente nero che Lucio Fontana presenta nel 1949 alla Galleria Naviglio di Milano.
È il segno evidente che è ormai matura la problematica di un'arte che si fa ambiente e in cui il fruitore è sollecitato, non solo mentalmente, ma in modo ormai multi-sensoriale.
Nel 1950 realizza la pittura proiettata attraverso composizioni astratte racchiuse tra i vetrini delle diapositive e scompone la luce grazie all'uso del filtro Polaroid realizzando nel 1952 la pittura polarizzata, che presenta al MoMA nel 1954 con la mostra Munari's Slides.
È considerato uno dei protagonisti dell'arte programmata e cinetica, ma sfugge per la molteplicità delle sue attività e per la sua grande ed intensa creatività ad ogni definizione, ad ogni catalogazione, con un'arte assai raffinata.

lunedì 2 maggio 2011

Moebius: Garage contemporaneo

«Sì, mi piace molto teorizzare su tutto quel che accade nel mondo», dice. «Ma non sono mai riuscito a estrarre da questo caos, da questa massa d'informazioni, qualcosa da privilegiare. E il mio lavoro è più un tentativo di sintesi di quel che immagazzino sul mondo circostante. Abbiamo l'illusione della nostra presenza in Tunisia, ad Haiti...e passiamo il tempo a colmare questa illusione del reale mediante il nostro immaginario. Sappiamo di non essere lì, di non essere le vittime di quelle tragedie, ma ugualmente ci proviamo, grazie a tutto il materiale che immagazziniamo, con il cinema, la letteratura, la televisione. Immagazziniamo enormi riserve di realtà in scatola, pronte per essere dirottate nella zona sensazioni. Siamo nella fantascienza, nella misura in cui, da qualche decennio ormai, non si vive più esclusivamente su scala locale: viviamo, senza forse averne sempre consapevolezza, in quanto "terrestri". Questa espansione della coscienza ha una sua contropartita: ovvero che le sensazioni si sono un po' diluite. Non si ha la stessa densità quando si corre in un territorio così vasto rispetto a quando si é concentrati sul proprio villaggio, sul proprio quartiere. Di fatto, più ci si estende e più si diventa porosi e inconsistenti». Dissoluzione, ancora. «Esatto. Il lavoro estetico, oggi, è vittima proprio di questo: gli artisti per la maggior parte si cimentano in opere "distese". Ma se sei un artista e ti vuoi far conoscere, devi lavorare per il "pianeta", per un'arte delocalizzata. Come tutti coloro che fanno dell'arte commerciale, io mi sento un po' strano in questo contesto, perché l'artista commerciale non esiste in quanto persona, ma in quanto savoir-faire. Dev'essere estremamente flessibile, adattarsi a un pubblico: non ha la possibilità nè la capacita di essere universale in maniera deliberata. Lo può divenire, ma come un paesano che non è mai uscito dal suo villaggio. E che dunque ricrea della densità localizzandosi».



(Frammento di un intervista tratta da Rolling Stone, Marzo 2011)