venerdì 2 novembre 2012

Gocce d’acqua su pietre roventi, di François Ozon (2000)


Quattro personaggi riuniti in un lussuoso appartamento nella benestante Germania Ovest degli anni ’70: l’unità di luogo determina l’origine teatrale del lavoro di Francois Ozon, tratto dall’omonima piece di Rainer Werner Fassbinder mai rappresentata. Il film mantiene la divisione in atti e una rigida impostazione formale nella costruzione dell’intreccio, con dialoghi e situazioni spesso volutamente reiterate.
La vicenda ruota intorno a Leopold (Bernard Giraudeau), cinico affarista, che con un perverso e raffinato gioco, tra seduzioni e blandizie, riesce a conquistare a sé l’amore del giovane e irrisolto Franz (Malik Zidi) a scapito della pre-esistente relazione sentimentale con la fidanzata Anna (Ludivine Sagnier).
Il rapporto fra i due sembra avviarsi verso una reciproca alternanza di ruoli, ma con l’entrata in scena di Anna e del transessuale Vera (Anna Thomson) suo ex-amante, la personalità di Leopold si manifesta in tutta la sua efferatezza. E’ il vero centro gravitazionale del gruppo, abile e spietato manipolatore di coscienze in grado attraverso un sottile esercizio di potere, inizialmente solo carismatico poi anche economico (l’analisi dei rapporti di classe nella società capitalistica, leitmotiv nelle opere di Fassbinder), di coinvolgere i tre in un ecumenico congresso carnale fino all’inevitabilmente tragico finale.


Tema fondante della pellicola è la riflessione sul complesso mondo delle relazioni sentimentali, le gerarchie e le dipendenze che si instaurano fra soggetti ridotti come ingranaggi di un insensato meccanismo che allo stesso tempo li compiace e li opprime. Il regista raccoglie, espandendola, la visione ecologica di Fassbinder sottolineando come anche il contesto sociale e familiare (la famiglia appare come un corpus estraneo ed indifferente dei tormenti individuali) e ancor più significativamente quello economico (Leopold confessa di essere responsabile della morte di un uomo per ragioni di affari) , contribuiscono a demolire l'arbitrio del singolo conducendolo verso un ineludibile status di vittima, senza alcuna possibilità di redenzione. I personaggi minori rappresentati dalle due donne, pur essendo meno delineati risultano essere null'altro che tappe differenti nello stesso disperato percorso intrapreso da Franz; mentre Anna è ancora allo stadio iniziale, Vera ne ha già passato il limite (non uccidendo se stessa ma distruggendo la sua precedente identità sessuale).


Lo stile di Ozon, al tempo ancora non del tutto definito, appare comunque evidente nei suoi tratti più caratteristici, ritmi tendenzialmente lenti e movimenti di macchina calibrati, un gusto drammatico filtrato da modi lievi e un costante sottofondo di ironia disincantata e momenti grotteschi (assunto agli onori di culto il ballo di gruppo sulle note di “Tanze Samba mit mir”). Nello stesso tempo la fotografia ricercata e orientata prevalentemente ai contrasti netti e l’accurata scenografia anni ‘70 tanto lussuosa quanto immancabilmente kitsch circoscrivono lo spazio scenico evidenziando ancor più il senso di claustrofobia delle tre vittime ormai impossibilitate a “uscire” da quell’appartamento sempre meno locus fisico (quando la situazione vira al peggio per Franz l’apertura di una finestra potrebbe simboleggiare un’ipotetica via d’uscita), sempre più metafora della loro condizione di schiavitù da cui è possibile emanciparsi solo annientandosi.


Virginia Cassandra

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