La recensione è finita. Morta, sepolta, archiviata: «Nell’era del web, dove i consumatori danno la pagella online a tutto, dagli hotel ai ristoranti, dai film alla musica, dalle automobili allo sport, la figura del critico letterario che scrive ogni settimana le sue recensioni è destinata a scomparire, se non è già scomparsa, così come non esistono più molti giornali che pubblicano pagine e pagine di recensioni di libri». Parola di uno che ne ha scritte centinaia, o forse migliaia, così tante da averle raccolte ormai in quattro volumi, l’ultimo dei quali, Sono tutte storie, esce in questi giorni in Italia pubblicato da Guanda. Ma quelle di Nick Hornby, come precisa subito lui stesso, non sono vere recensioni: sono un diario, un viaggio, una scusa per discorrere di politica, calcio, figli, sesso, rock, insomma di qualunque cosa e dunque anche di letteratura. Inviate ogni mese, da anni, a The Believer, il mensile letterario di Dave Eggers, si leggono come un prolungamento dei romanzi che hanno fatto di Hornby il più popolare scrittore inglese della sua generazione, da Febbre a 90 ad Alta fedeltà: una sorta di flusso di coscienza della nuova narrativa, una voce inconfondibile che non si riesce a smettere di ascoltare.
Come è cambiato il ruolo del recensore, del critico, nell’era digitale?
«È irriconoscibile. Quando ero più giovane e i giornali mi commissionavano recensioni, avevo un sacco di lavoro, ben pagato per di più. Adesso la gente dà i voti da sola sul web a quello che mangia, guarda, ascolta, legge. È sempre meno necessario, sempre meno importante, aspettare che il critico dalla torre d’avorio dica che film vedere o che libri comprare».
Lei però continua a farlo.
«Ma io non mi metto nella parte del critico di professione. Perlomeno non mi ci metto più. Le mie rubriche sui libri sono scritte dal punto di vista di un lettore ordinario, che oltretutto prende i libri come una scusa per dialogare in libertà di un sacco di altre cose. E una specie di diario in pubblico».
Nella raccolta di questo volume parla di un’altra conseguenza di Internet: la crescente difficoltà di leggere romanzi di 600 pagine o più.
«Non dipende solo da internet, ma indubbiamente il digitale ha accelerato la nostra esistenza. Veniamo continuamente interrotti o sollecitati da qualcosa che ci distrae. E in più, o anche per questo, le nostre vite sono sempre più di corsa. Chi ha tempo di leggere Guerra e pace, la sera, dopo avere lavorato, cucinato e messo a dormire i bambini? I libri di 600 o 800 pagine non si possono leggere al ritmo di due-tre pagine per sera, vanno consumati più in fretta, più intensamente, con ingordigia, non sbocconcellati, ma oggi la maggior parte di noi può fare questo solo in vacanza, o se sei molto giovane, disoccupato o pensionato».
Infatti molti romanzi tendono a essere sempre più corti. Secondo Ian McEwan, ciò non è necessariamente un male, anzi: per lui la forma suprema di letteratura è la novella, il racconto o romanzo breve. E’ d’accordo?
«Non molto. La narrativa ha tante forme, il racconto, il romanzo breve, il romanzo di media lunghezza, il romanzone, e non direi che una sia superiore alle altre. Secondo me non dipende dalle dimensioni, bensì dalla qualità dello scrittore».
A proposito di Guerra e Pace, in questo libro lei elogia tra gli altri I posseduti, un volume di critica letteraria, sebbene non solo di critica letteraria, della giovane autrice americana Elif Batuman, la quale esalta i romanzieri russi dell’Ottocento, a partire dal Dostoevskij dei Demoni, come i più grandi in assoluto. E’ vero che ogni popolo esprime al meglio una particolare forma di creatività,gli italiani l’opera, i tedeschi la musica sinfonica, i fiamminghi la pittura, i russi la letteratura, e così via?
«Penso che, per ragioni piuttosto complicate, ci siano periodi in cui una cultura nazionale eccelle in un campo o nell’altro. Ma non credo sia una predisposizione genetica, assoluta, definitiva. I russi dell’Ottocento erano scrittori meravigliosi, eppure è un pezzo che non leggo con trepidazione uno scrittore russo. Direi lo stesso per un pittore fiammingo e un compositore tedesco. Sebbene non mi azzarderei a criticare la lirica italiana, di qualsiasi epoca».
In un capitolo afferma di non leggere volentieri nessuno scrittore del lontano passato, escluso Shakespeare: davvero non farebbe altre eccezioni?
«Quando ero ragazzo, pensavo che Shakespeare fosse una barba tremenda. A me interessavano altre cose: la musica rock, i fumetti, la cultura popolare. Ero convinto che i cosiddetti classici della letteratura fossero una pizza destinata al mondo accademico.
Solo invecchiando ho capito che Shakespeare, al suo tempo, “era” cultura popolare, e lo stesso vale per Dickens e tanti altri classici della letteratura. Bisogna solo capire che c’è un tempo per leggere tutto, e che non si deve avere fretta, né tantomeno pensare che leggere un certo autore o un certo libro sia un dovere. Se “devi” fare qualcosa, pensi subito che sarà poco divertente, e ti passa la voglia. Perciò tanti giovani preferiscono un videogioco a un romanzo.
Lasciamo che leggano quel che vogliono, senza sensi di colpa, e allora forse si divertiranno e leggeranno di più. Shakespeare, eventualmente, lo leggeranno da grandi».
In un altro capitolo, ricorda con nostalgia la scoperta di Patti Smith durante la sua giovinezza e tutto il mondo che c’era dietro. Era più facile trovare l’ispirazione per scrivere, in quel tipo di mondo, anziché nel mondo delle catene di negozi tutti uguali in cui viviamo oggi?
«Resto convinto che la colpa principale del fatto che oggi ci sono meno scrittori capaci di affascinare i lettori sia degli scrittori medesimi, perché non riescono a stabilire una connessione con la gente. Sì, il mondo di Patti Smith era un’ispirazione fantastica, ma era anche molto ristretto: chi la conosceva, allora, al di fuori degli angoli bui della controcultura e dell’ avanguardia musicale e artistica? Penso che anche oggi esistano artisti così. Il problema, casomai, è che ci sono sempre meno angoli bui: tutto viene rapidamente scoperto, commercializzato, consumato. Ma da qualche parte, se uno vuole, l’ispirazione creativa può trovarla anche oggi».
Lei che è notoriamente un grande appassionato di football, una volta ha detto che ci sono più buoni libri che belle partite di calcio. Rovesciando il paragone, che libri ha letto, nell’ultimo anno, all’altezza di Barcellona - Real Madrid?
«Nessuno, ahimè. Un paragone che non si può fare. Non ci sono dei Messi e dei Cristiano Ronaldo, nella narrativa contemporanea. A consolazione della quale aggiungo però che una partita ti emoziona in 90 minuti, per un libro ci vogliono tempi più lunghi: uno scrittore non può tornare negli spogliatoi a pagina 50, deve continuare a palleggiare e tirare in porta per altre 100-200 pagine, e questo è molto più difficile».
Per finire dove abbiamo cominciato, con il web: lei legge libri su Kindle?
«Qualche volta, in viaggio. Per il resto preferisco la carta. Ma appartengo alla generazione dei dinosauri, i miei figli sono cresciuti con uno schermo digitale ed è li che leggono anche i libri. Non credo che il libro di carta scomparirà così presto come il recensore e le recensioni tradizionali, ma non penso nemmeno che gli e-book faranno rimpicciolire gli scrittori. Se diventeremo più piccoli, sarà solo colpa nostra, non del mezzo su cui veniamo letti».
“Sono tutte storie” di Nick Hornby, pubblicato da Guanda pagg. 200 |
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