Una cosa strana di Robinson Crusoe è che, nei venticinque anni trascorsi sulla sua isola della Disperazione, non gli capita mai di annoiarsi. Parla della monotonia delle prime fatiche, certo, e più tardi ammette di essere «assai stanco» di perlustrare l’isola in cerca di cannibali; si lamenta di non avere una pipa per fumare il tabacco che trova sull’isola, e descrive il primo anno in compagnia di Venerdì come «l’anno più bello fra quanti ne trascorsi in questo luogo». Ma la moderna ricerca di stimoli è del tutto assente. (Il dettaglio più sorprendente del romanzo sono forse i «tre grossi barili di rum o di liquori forti» che Robinson fa durare per un quarto di secolo; io li avrei finiti nel giro di un mese, per non pensarci più). Anche se non smette mai di sognare la fuga, ben presto arriva a provare «una sorta di segreto piacere» per la sua proprietà assoluta dell’isola:
Considerai ora il Mondo come una cosa remota dove nulla c’era da desiderare o sperare, da cui nulla dovevo attendere, in una parola con cui niente avevo a che fare e con cui verosimilmente non avrei avuto più a che fare; mi pareva di vederlo come probabilmente lo guarderemo dopo questa vita.
Robinson riesce a sopravvivere alla solitudine perché è fortunato; si riconcilia con la sua condizione perché è un uomo ordinario, e la sua isola è concreta. David (David Foster Wallace, ndr), che era un uomo straordinario su un’isola virtuale, alla fine riusciva a sopravvivere solo grazie al suo io interessante, e il problema di trasformare se stessi in un mondo virtuale è simile a quello di proiettarsi in un cibermondo: gli spazi virtuali in cui cercare stimoli sono infiniti, ma è proprio questa infinitezza, questo perpetuo stimolo privo di soddisfazione, che diventa una prigione. Essere tutto e di più è anche l’ambizione di internet.
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