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lunedì 16 dicembre 2013

Robert Redford: Rare Photos of a Film Legend

                             

Nel 1969 il fotografo John Dominis trascorre, per conto della rivista LIFE, una settimana con Robert Redford, seguendolo nelle sue case nello Utah e a New York, e racconta i giorni e le notti di un uomo sempre più famoso che lotta con forza per mantenere il controllo sia della sua vita privata che della sua carriera .
A quel tempo, Redford è sposato con la prima moglie, Lola Van Wagenen, e molte foto ritraggono anche i loro figli Shauna e Jamie.
Non c'è alcun dubbio che Redford fece una grande impressione su Dominis. "Era un vero uomo , " dice Dominis, ora 91enne, ricordando i suoi giorni trascorsi con l'attore "Una persona forte. Mi piaceva un sacco. Ed era gentile con me, anche se non mi conosceva. "
Un aspetto fondamentale del fascino di Redford per Dominis, era l'evidente amore e rispetto dell'attore per il mondo naturale e il paesaggio drammatico del West ("Altre persone vanno in analisi; io ho lo Utah" Redford disse una volta scherzando).
Nel 1975, Redford aveva accumulato circa 7.000 ettari di terreno in Utah, tra cui un ranch, una stazione sciistica, un allevamento di cavalli, e un ampio tratto della catena montuosa Wasatch. Negli anni successivi, naturalmente, Redford usò gran parte di quella terra trasformandola nel sito dell' enormemente popolare e influente Sundance Film Festival e del nonprofit Sundance Institute .













(L'articolo originale qui)

sabato 23 novembre 2013

Sydney Pollack, L'inventore di sogni

con Dustin Hoffman, Tootsie (1982)
In quasi 50 anni di cinema ha diretto capolavori (con due soldi o milioni di dollari), lanciato divi (da Robert Redford a Jane Fonda) e recitato per i più grandi (Kubrick vi basta?). Con “RS”, Sydney Pollack ha chiacchierato di Ferrari, musica country e aerei privati.
Un sabato di fine marzo, nella tranquilla Alba. L’elegante cittadina formalmente nota come la patria del tartufo, del cioccolato e di inebrianti vini rossi, ospita da sei anni un festival di cinema e ricerca spirituale. Intimamente legato alla città e sostenuto da un’importante famiglia di imprenditori locali, i Ferrero. La fondazione che porta il nome degli inventori della Nutella, attiguo alla fabbrica di famiglia, è un edificio solenne, discreto auditorium in pietra bianchissima. Stamattina accoglie il pluripremiato oscar Sydney Pollack per la tradizionale lezione di cinema cui sono invitati gli ospiti illustri dell’Alba Film Festival. Pollack è un disinvolto, gentilissimo signore di 72 anni, nel giro di un paio di giorni sfoggerà un completo all black alla Lou Reed e diverse paia di lucidi stivali da cowboy. Attore, prima che regista, produttore amatissimo dai divi, molti dei quali hanno guadagnato grazie a lui la statuetta dorata.

con Barbra Streisand, Come eravamo (The Way We Were) (1973)
con Robert Redford, Natalie Wood e Charles Bronson, Questa ragazza è di tutti (This Property Is Condemned) (1966)
Dopo una mattinata passata a raccontare aneddoti sui suoi film (vi dicono niente I tre giorni deI condor, Come eravamo, La mia Africa, Tootsie, Il socio?) , trovare qualcosa da chiedergli che non lo costringa a ripetersi è dura. Pollack, oltre a essere un vero gentleman, è anche un accorto produttore, non solo di se stesso. Risponde con perizia consumata a tutte le domande. Ha una nonchalance invidiabile nel parlare un momento di budget miliardari e l’attimo dopo delle sue fonti d’ispirazione. «Ho imparato il ritmo da dare ai miei film ai corsi di danza di Martha Graham e Louis Horst». Mi viene in mente che la colonna sonora del suo primo film, La vita corre sul filo, del 1965, era di Quincy Jones. «Ho conosciuto Quincy a New York in un noto locale di musica nera, l’Apollo Theatre. È stata la prima volta in cui ho dovuto cercare di comunicare, da non musicista, con un musicista. È stata un’esperienza dura, non conoscevo il linguaggio, avevo solo sensazioni contrastanti. Quincy mi parlò molto, ho imparato tanto da lui, siamo ancora amici».
Il regista di La mia Africa ha prodotto anche due film con Willie Nelson. Che sia un fan del country? «Non lo ero prima di incontrarlo, quand’ero giovane non la sopportavo. Poi, a fine anni 70, Waylon Jennings, che era a contratto con la Capitol, si propose come attore e mi diede un paio di suoi vinili. Ne ascoltai uno e mi colpì molto un’altra voce che non conoscevo, quella di Willie. Circa due mesi dopo lo incontrai a Nashville. Sapeva che stavo per girare Il cavaliere elettrico e disse che gli sarebbe piaciuto esserci. Due mesi più tardi si presentò nel mio ufficio con una giacca di pelle scamosciata a frange, un paio di stivali da cowboy e le treccine. Chiamai la mia costumista e le dissi: “Guarda, questo è l’abbigliamento perfetto per un personaggio del Cavaliere elettrico!”. Gli diedi una piccola parte ma gli dissi: “Ok, Willie, ma sappi che non potrai andartene in giro fatto tutto il tempo, dovrai imparare delle battute... Non è come un concerto, è davvero noioso”. Ma sul set fu molto professionale. Così gli diedi più spazio e usai la sua musica per la colonna sonora. Diventammo amici, e finii per produrre altri due suoi film; Honeysuckle Rose e Songwriter». L’uomo che ha ricevuto mazzi di rose rosse da Dustin Hoffman che lo pregava di recitare la parte del suo agente in Tootsie, l’amicizia può dire di conoscerla davvero. Quella tra lui e Robert Redford meriterebbe un capitolo a sé in un’ipotetica storia amicale del cinema. «La prima volta che ho incontrato Redford eravamo dei ragazzi, sul set di un piccolo film, il primo per entrambi. Anche lui, come me, era arrivato a Hollywood da New York, dove si stava costruendo una buona reputazione come attore teatrale. Il film era Caccia di guerra. Ricordo la colonna sonora, bellissima, di Bud Shank, un flautista jazz (Pollack non lo dice, ma nel film c’era anche Francis Ford Coppola che faceva una comparsata, ndr). Eravamo entrambi sposati, avevamo dei figli, eravamo coetanei. Anche le nostre mogli divennero amiche. Nel 1965 diressi Questa ragazza è di tutti, con Natalie Wood. Eravamo un po’ preoccupati, perché eravamo amici da qualche anno e pensavamo sarebbe stata dura lavorare insieme. Ma tutto accadde molto naturalmente. Subito dopo Non si uccidono così anche i cavalli? lessi il soggetto di Corvo rosso non avrai il mio scalpo, e pensai che sarebbe stato insolito ma adatto a lui, che rispose benissimo. Siamo andati avanti a lavorare in questo modo». In effetti c’è una magia nel loro affiatamento. «Le riprese si svolsero nelle montagne dello Utah, a Timpanogos. Lui aveva una casa lì. Mi innamorai del posto e me ne costruii una anch’io. Quando avevamo vent’anni abbiamo fatto film su ventenni, quando ne avevamo trenta su trentenni eccetera. Siamo diventati vecchi così. Non possiamo farne altri perché ormai siamo troppo vecchi…» (ride). Il ricordo va al suo secondo western quasi hippie, quell’inno alla wilderness che è Corvo rosso non avrai il mio scalpo. Leggendario anche per le difficoltà logistiche. Molte scene sono stare girate alla “buona la prima” a causa della neve. Era così alta che non potevamo camminare. Abbiamo preso delle reti metalliche messe per terra e usate come fossero degli scarponi, per non sprofondare. Il problema poi non era tanto per gli attori, quanto per i cavalli, che s’impaurivano e s’aggrappavano a Redford per non sprofondare. Credo di aver girato per circa 52 giorni, che non è tanto per un film d’azione e d’esterni di quel genere. Prima, avevo girato solo un altro film in esterni, Joe Bass l’implacabile con Burt Lancaster, in Messico. Un nuovo management prendeva il controllo della Warner Bros proprio mentre stavo iniziando Corvo rosso, e mi chiesero subito quanto sarebbe costato il film. Quando proposi un budget di 2,8 milioni dissero che il film non si poteva fare, ero pronto a lasciare. Ma Redford era in bolletta ai tempi, il suo compenso era di circa 500mila dollari. Ne aveva già presi e spesi 200mila e non poteva restituirli alla produzione. Continuava a dirmi: “Siamo entrati nel film insieme, non puoi mollare adesso”. Allora lo studio impose di girare una versione più economica, e che ogni dollaro in più che avrei speso sarebbe stato tolto dal mio compenso. Redford fu di grandissimo aiuto. Usammo la sua vecchia cucina per dare da mangiare a tutti sul set. In cambio di uno spot in cui guidavamo una loro auto, mi sono fatto dare delle jeep gratis dalla General Motors. Ho risparmiato con ogni stratagemma possibile.» 

La mia Africa (Out of Africa) (1985)
con Nicole Kidman, The Interpreter (The Interpreter) (2005)
A proposito di difficoltà tecniche, rivedendo qui ad Alba Non si uccidono così anche i cavalli? mi sono chiesta come ha fatto a tenere la continuità tra ballo e musicisti nelle lunghe sequenze musicate. «È stato difficilissimo mantenere il sincrono tra i ragazzi in pista e la band, che in realtà stava facendo finta di suonare, sentendo la musica in cuffia e muovendosi a ritmo con quella. Dovevo sapere su quale battuta musicale si era, e si trattava di una musica pervasiva. Non sono sicuro che saprei rifarlo, oggi». 
Il tempo è pochissimo davanti a questa miniera di storie, devo andare al sodo. Chiedo se è vero che Come eravamo è stato tagliato per censurare gli accenni al maccartismo. «Sono stato io a fare il taglio, e non si è trattato di un disaccordo con la produzione. Avevamo organizzato un’anteprima in cui il film venne accolto molto bene. Fino agli ultimi dieci minuti, quando la gente cominciò ad alzarsi per comprare popcorn. Dato che non si poteva montare come oggi, ma si lavorava solo con della lametta e del nastro adesivo, andai con il montatore in sala, tagliai 11 minuti, rincollai la pellicola. La sera dopo fu un successo». Parlando di vincenti, gli chiedo che fine ha fatto il suo progetto di un biopic su Enzo Ferrari. «Ci lavoro non so neanche io più da quanto, credo 10 o 15 anni. Non ho mai voluto dirigerlo, comunque. Per quanto ami le Ferrari - ne ho guidate diverse nella mia vita - non credo che siano le gare automobilistiche a portare il pubblico al cinema. Ai tempi mi chiese di produrlo Cecchi Gori. Sono stato in Italia, ho parlato a lungo con Luca di Montezemolo. Ho steso una sceneggiatura, l’ho mandata a Michael Mann. Per un po’ è stato lì per lì per farlo, ma poi ha deciso di affiancarsi a me come produttore. Una scusa per tornare in Italia, a mangiare e bere bene e guidare macchine sportive (ride)... Ma non abbiamo ancora il film!».

Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson) (1972)
I tre giorni del condor (Three Days of the Condor) (1975)
Una volta ha dichiarato che fare film è rischioso come guidare un aereo. «Fare film costosi con gli studios di Hollywood, come ho fatto io, è molto pericoloso. Perché quando falliscono, non si parla di 2 o 3 milioni di dollari, ma di 50, anche 100. E’ un’industria in cui tutto dipende dal fare film di successo o no. E ovvio che da più tempo sei nel settore, meno dipendi dal sistema. Non ricordo di aver detto che è come volare, ma rende l’idea». Il bello è che Mr. Pollack è arrivato qui pilotando il suo aereo privato (pare sia il modello più veloce dopo il “pensionamento” del Concorde, ndr). Dritto qui, da Los Angeles, con un solo scalo a Roma. «Avevo paura di non vedere Alba dall’alto», dice «ma poi l’ho trovata abbastanza facilmente». Che stile.

Non si uccidono così anche i cavalli? (They Shoot Horses, Don't They?) (1969)
con Al Pacino, Un attimo, una vita (Bobby Deerfield) (1977)

(Raffaella Giancristofaro - Rolling Stone, giugno 2007)