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lunedì 1 ottobre 2012

Io sono Dieguito, Maradona secondo Martin Amis



C’è una fotografia terrificante di Diego Armando Maradona: è del 2000, l’anno del suo primo attacco di cuore. Indossa un cappellino da baseball messo alla rovescia che fa intravedere una ciocca di capelli tinti alla punk color cacca di bambino, occhiali scuri, una maglietta da batterista senza maniche che lascia scoperto tutto il tatuaggio di 'Che' Guevara sulla spalla destra. Poi, un sogghigno beffardo con la bocca aperta. E si arriva all’enorme massa della pancia. 
Sarebbe impossibile esagerare l’ubiquità del diminutivo (ito, ita) nello spagnolo latinoamericano, che ha origine nell'estrema riverenza e indulgenza concessa ai più piccoli. È un continuo incontrare uomini chiamati come bambini piccoli: gagliardi Sergito, forzuti Huguito (e un mio amico di 60 anni si chiama semplicemente Ito). Ma vi strozzereste, oggi, chiamando Maradona 'Dieguito'. Lo si vede ancora frequentemente in tv, barcollante negli aeroporti o incastrato in un golf cart; ha recuperato il suo vecchio colore dei capelli e si veste più discretamente, ma la sua corpulenta dimensione resta prodigiosa e impossibile da ignorare. È evidente quanto ciò lo torturi. E lo si vede, Dieguito, dentro il suo nuovo involucro: bloccato, sofferente. Eppure non si ribella. Dentro ogni uomo grasso, si dice, c'è un uomo magro che tenta di uscire. Nel caso di Maradona sembra che ci sia un uomo ancora più grasso che tenta di entrare.

L'autobiografia di Maradona, El Diego, stava per uscire e quaggiù si parlava del fatto che avrebbe concesso un'intervista a Buenos Aires (casualmente non ero lontano: Uruguay). Quando improvvisamente si spostò a Cuba, la sua seconda casa (o clinica) dal 2002, lo seguii con gioia. Maradona aveva già avuto un attacco cardiaco causato dalla droga ad aprile, è vero, ma ufficialmente si disse che si trattava di un viaggio di routine, una disintossicazione, o un decarburare. Il suo agente, un giovane con le stesse forme di Dieguito chiamato Ponzalo, mi ricevette nel suo albergo e, cautamente, mi disse che sembrava stesse migliorando. 
Ebbi una risposta più precisa il giorno dopo, nel notiziario. I medici – i medici di Fidel del centro di salute mentale – erano chiari. Il paziente era collegato alle macchine come un astronauta e non avrebbe incontrato chicchessia. Maradona si era ritirato nel 1997. Nel 2001 aveva giocato (assai corpulento) in una partita mandata in onda. Ora, nel 2004, ha bisogno che gli si dia il permesso di guardare una partita in tivù. Ha 43 anni.


Nell’America del Sud si dice a volte, o si suppone, che la chiave per capire il carattere degli argentini si trovi nella loro valutazione dei due gol di Maradona nella Coppa del Mondo del 1986. 
Per il primo gol, battezzato “la mano di dio”, Maradona era lievitato in maniera incredibile su un cross e aveva mandato la palla in porta con un intelligentemente nascosto colpo della mano sinistra. Ma il secondo gol, che arrivò pochi minuti dopo, fu uno di quelli che Bobby Robson chiama “un maledetto miracolo”: raccolto un passaggio da una punizione nella sua stessa area, Maradona, come in un'espiazione, chinò la testa e sembrò volesse aprirsi una strada attraverso tutta la squadra inglese prima di mandare a terra Shilton con una finta e la palla in rete. 
Ebbene, in Argentina è il primo gol, non il secondo, quello che piace veramente. Per il “macho” argentino (o questo almeno dice una calunniosa generalizzazione) i modi furbi danno molta più soddisfazione di quelli corretti. Lo stesso succede a livello di governo e negli affari. Non solo si tollera la corruzione: la si idolatra. 
Si tratta di una propensione che si estende alla sfera sessuale e alla quale si attribuisce un grande valore nell’ambiente dei “macho”. E nel lessico di Maradona una stessa parola, “vaccinare”, è usata per il segnare un gol e per il fornicare. Nella sua logica, il secondo gol contro l’Inghilterra fu una languida epifania erotica; il primo era un brivido in una strada laterale. Entrambi erano stati un colpo azzeccato. Più in generale, in questa cultura, l’umiliazione, l’abiezione, è il giocare sempre secondo le regole.
Quando in El Diego si arriva alla descrizione della partita contro l’Inghilterra, il lettore è totalmente sedotto dalla storia e dalla turbolenta ingenuità con la quale Maradona la racconta. Innanzitutto, le passioni coinvolte non sono solo ludiche (“nelle interviste precedenti la partita avevamo tutti detto che non si doveva confondere il calcio con la politica, ma era tutto una bugia; ci pensavamo in continuazione. Balle che era solo un’altra partita!). 
E non si trattava neppure solo delle Falkland-Malvinas: era la revancha di un popolo soggiogato e impoverito. 
Dunque, avendo esultato a lungo per il secondo gol (“volevo appendere ogni fotogramma dell'intera sequenza, ben ingranditi, sopra la testiera del mio letto”), Maradona volge la sua attenzione al primo (“anche dall’altro gol avevo avuto molta soddisfazione, a volte penso che quasi mi era piaciuto di più...”). 
E il lettore può per ora solo assentire alla soddisfatta cortesia della sua conclusione (“entrambi avevano un proprio fascino”). In altre parole, tutto è corretto – tutto è tenero – in amore e in guerra e, per qualche ragione, il calcio è tutto lì, e quelle sono le energie che richiama: le energie dell'amore e della guerra.


La sua è stata un'infanzia senza cuscini protettivi, in tutti i sensi. Se la società aveva le sue malattie, niente stava tra esse e Dieguito (“Tutti parlano di modelli di comportamento. Modelli un cazzo! In Argentina non abbiamo un solo modello di comportamento vivente, quindi smettete di rompermi le palle con i ruoli!”). 
Questo bel gioco era un modo di uscire dalla bidonville, ma difficilmente poteva rappresentare un faro di virtù per il ragazzo che cresceva. Il calcio era corrotto e rapace come ogni altra cosa, con una federazione in cui i giocatori dovevano passare le mazzette al manager per entrare nell'organico della squadra. Il barrio di Maradona a Buenos Aires era Villa Fiorita, negli anni 60 una giungla corrotta, oggi una Saddam City della criminalità in armi. “I miei genitori erano persone modeste, umili lavoratori”, scrive, ma la frase fatta è poco aderente: tutti i dieci Maradona vivevano in una baracca di tre stanze in cui l’acqua corrente era quella che arrivava dal tetto (“ti bagnavi di più dentro che fuori”).

L’ossessione per il calcio è innata; non ci sono memorie che la precedono, e nessun interesse a sfidarla. Quando il bambino Diego andava a fare le commissioni, lo faceva palleggiando con un'arancia. Quando aveva 3 anni il cugino gli regalò la sua prima palla di cuoio (“dormivo con la palla e l'abbracciavo al mio petto”). E quando si recò al suo primo provino, all’età di 9 anni, era così avanti che l'allenatore credette di avere davanti un nano. 
A 15 anni stava già tra i seniores e con i primi stipendi si comprò un altro paio di pantaloni per completare quelli di velluto a coste turchese con i grandi risvolti. La sua ascendenza era quindi perfetta per allontanarlo dalla realtà – e la realtà allora includeva la guerra sporca e il terrorismo e i 30.000 desaparecidos (“all'età in cui la maggior parte dei ragazzini ascolta le storie”, si legge in un titolo, “lui ascoltava ovazioni”). tre mesi dopo il suo debutto si stava già allenando con la nazionale, insieme a Daniel Passerella e a Mario Kempes. A 18, dopo aver vinto contro la squadra statunitense dei Cosmos, aveva già scambiato la maglietta con Franz Beckenbauer. A 19 aveva segnato il suo centesimo gol. Era già il volto della Coca-Cola, della Puma, dell'Agfa.
Marginali e relativamente impoverite, le federazioni sudamericane fungono da base di reclutamento per le squadre europee, e nel 1982 Maradona puntualmente si trasferisce al Barcellona per 8 milioni di dollari. Due anni dopo, quando si sposta a Napoli, prende 7 milioni di dollari l’anno, più altri 3 dalla televisione italiana (e c'erano gli altri 5 di Hitachi). Un sondaggio dell’International Management Group lo definisce “l’uomo più famoso del mondo”, e gli vengono offerti 100 milioni di dollari per i “diritti sull’immagine”. Li rifiuta per ragioni di patriottismo. 
Il 1986 gli regala l’apoteosi nazionalistica: è il capitano alla Coppa del Mondo e gli argentini la vincono. Aveva 26 anni.


El Diego è una narrativa trasparente, e nei suoi interstizi si continua a percepire uno sbalorditivo caos interno: acute e croniche carenze di carattere e di giudizio, e soprattutto una conoscenza di se stessi che è l’assente assoluto. Quando Maradona aveva 14 anni cadde sotto le grinfie del suo primo manager, un vecchio consigliere dal poco incoraggiante nome di Jorge Cyterszpiler. 
Si capisce ciò che accadrà appena Maradona spiega che gestivano tutto “sulla base dell’amicizia” (“non c'era un solo pezzo di carta firmato”). E, inevitabilmente, quando arriva a Napoli, dieci anni più tardi, rivelerà, sconcertando tutti, che “Cyterszpiler aveva una tale sfortuna con i numeri che a me non è rimasto niente”. O meno di niente. “Quel che è fatto è fatto”, alza le spalle Diego, e ribadisce che ogni investimento (ogni locale da bingo) era il risultato delle sue decisioni. 
Molto più tardi, quando Maradona decide di rimettersi in forma, assume un allenatore: Ben Johnson (“sì, Ben Johnson! L'uomo più veloce al mondo, checché ne dicano gli altri”). 
Lo stesso succede con la camorra a Napoli (“mi offrivano in continuazione delle cose, ma io non volevo mai accettarle: per via del vecchio detto che prima danno e poi chiedono”). Non voleva accettarle, ma le accettava. Lo stesso con i falli e gli arbitri. Quando Maradona formula un giudizio, si ha l'impressione di star assistendo a uno dei suoi dribbling (“quel bastardo di Luigi Agnolin, l'arbitro italiano, mi ha annullato un gol... quell’Agnolin è un figlio di puttana... abbiamo cercato di far pressione su di lui dall'inizio, ma l'italiano non era un tipo che si lasciava intimidire... Agnolin mi piaceva”).
La vena anarchica di Maradona si rivela anche nella sua noncuranza – anzi, nel suo disgusto – per la legge. Nelle occasioni in cui attira l'attenzione della polizia non è quasi neppure in grado di spiegare il perché, “sono stato arrestato, arrestato!”, dice, e descrive brevemente la farsa che ne deriva; nel frattempo, come un educato colpo di tosse, una nota a piè di pagina si inserisce per informare sull'accusa (possesso di cocaina). 
Più tardi, di ritorno in Argentina: “Ho reagito... ho reagito come avrebbe fatto chiunque... l'episodio con il fucile ad aria compressa, sehh, quello”. Ed ecco un’altra nota à piè di pagina, evasiva, in cui Diego spiega che “l’affare” si riferisce all'episodio in cui aveva sparato con un fucile ad aria compressa contro un gruppo di giornalisti, senza precisare di averne colpiti quattro e di aver avuto una condanna, in seguito sospesa.


Poi ci sono frequenti accenni a quel che si potrebbe definire eccezionalismo, o megalomania di basso livello. Parla correntemente di se stesso usando la terza persona, non solo come Maradona (“lo abbiamo reso più forte di Maradona”; “questa è la cosa più importante che Maradona possa ricevere”; “la droga è una cosa troppo grande perché Maradona si possa fermare”), ma anche come El Diego (“perché io sono El Diego, anch'io chiamo me stesso così: El Diego”; “vediamo se possiamo stabilire questo punto una volta per tutte: io sono El Diego”; “sono lo stesso di sempre. Sono io, Maradona. Io sono El Diego”). 
Dopo un po’ queste frasi non suonano più come autocelebrazione, ma come autoipnosi. Passerella era “un buon capitano, sì”, concede, ma “il grande capitano, il vero capitano, ero e sempre sarò io”. Questo tipo di parole trovano un’eco più tardi, nel 1996, quando lancia una campagna nazionale, “sole senza droghe”, affermando che “io sono stato, sono e sarò sempre un tossicodipendente”. 
Il mantra del programma di disintossicazione, in genere un finto vanto di un’astinenza duramente conquistata, sembra in questo caso più una dichiarazione di verità irriducibile. Maradona ha consumato droga per vent’anni: da qui la sospensione di 15 mesi (in Italia), l’espulsione dalla coppa del mondo del 1994 (“mi avevano dato [sic] dell'efedrina, e l'efedrina è legale, o dovrebbe esserlo”) e il ritorno da canto del cigno al Boca Juniors, nel 1997.
Si tratta di un libro lirico, emozionale e anche eccezionalmente vivido. L’esotismo della parlata di Maradona è bilanciato dai cliché zeppi di imprecazioni del calcio, che sono, a quanto pare, universali (“la folla è impazzita”; “quella sega”). Ma ci sono anche accenni di un più intenso livello di percezione. La tensione nello spogliatoio prima della partita (“percepii un silenzio, troppo profondo, troppo freddo. Guardai le facce e le vidi pallide, come se fossero già stanche”) o un brutto incidente (“mi lanciai di slancio dietro a una palla persa e sentii l'inconfondibile rumore del muscolo che si strappa, come una cerniera lampo che si apre nella mia gamba”). 
Quanto a emozione, Maradona si piange addosso a dirotto una pagina sì, una no. E poi ci sono i poemi dedicati alla moglie e alla sua famiglia, che sono i più toccanti, perché sappiamo che ora è divorziato e che si è allontanato dai suoi due fratelli, e anche perché sappiamo che i legami amorosi non sono riusciti a trattenerlo nella loro orbita.


Sono molti gli sportivi che si vantano di essere campioni del popolo, tuttavia, il populismo di Maradona porta il segno del suo percorso: l’ambiente proletario di Buenos Aires, Napoli, e ora L'Avana (l’unica squadra francese con la quale ha flirtato è, guarda caso, il Marsiglia). A Buenos Aires, a chiedere in giro, le risposte su Diego sono sempre un tanto meditate, sempre di simpatia; gli abitanti di L'Avana, invece, che non hanno mai conosciuto un Maradona non in disgrazia, sembrano adorarlo incondizionatamente. Cuba è perfetta per lui, può essere l'uomo del popolo, e quello del presidente, intimo com’è di Fidel Castro. 
Jorge Valdano disse una cosa buona su di lui, e in alto stile latinoamericano: “povero vecchio Diego. Abbiamo continuato a dirgli per tanti anni ‘sei un dio’, ‘sei una stella’, che ci siamo scordati di dirgli la cosa più importante: ‘sei un uomo’”. Ma non ci siamo ancora. 
In Italia la gente gli diceva spesso: “ti amo più dei miei figli!”. Non è un dire blasfemo come suona. Con le sue arrabbiature, il suo autolesionismo e la sua mai scomparsa dolcezza, Maradona resta El Pibe de Oro, il bambino di dio. E’ ancora Dieguito.


Martin Amis, 2 ottobre 2004, La Repubblica (Link originale)

venerdì 1 giugno 2012

La storia di Pablito, di Oliviero Beha




Madrid, 11 luglio 1982, 22.30 
Guardavo la folla, i compagni, le bandiere dell’Italia sventolare ovunque, e dentro sentivo un fondo di amarezza. “Adesso dovete fermare il tempo, adesso.” mi dicevo. Non avrei più vissuto un momento del genere. Mai più in tutta la mia vita. E me lo sentivo scivolare via. Ecco: era già finito... 
Paolo Rossi, alias Pablito


13 giugno - 11 luglio 1982. Sono i ventotto giorni che mi hanno consegnato alla storia, rendendomi immortale e sposando al mio nome uno dei ricordi più cari all’Italia e agli italiani, Li rivivo come se fosse adesso, con lo stesso valzer di emozioni. Con uno stato d’animo altalenante, paragonabile alla realtà di quegli istanti memorabili. Timoroso ma positivo, pronto a qualsiasi sacrificio pur di dimostrare agli altri quanto valessi, e soprattutto intenzionato a dire grazie con i fatti a chi ha creduto in me prima, durante e dopo i due anni devastanti e interminabili dì squalifica: Enzo Bearzot. E non l’ha fatto per simpatia, ma perché come nessun altro credeva che prima o poi sarei tornato il Pablito esploso con lui in Argentina nel Mondiale del 1978. 

“Bearzot insiste a dispetto di chi vuole fuori squadra un Rossi ancora disorientato dalla lunga inattività ed aspetta. Sicuro lui solo, che prima o poi Rossi, rinfrancandosi, lo ripagherà di quel legame, che evidentemente non è fatto di cieca ostinazione ma di consapevole ragionamento e di radicata fiducia.” (Gino Palumbo, “Gazzetta dello Sport”, 1982) 


A distanza di trent’anni guardo le cose con occhi diversi, più maturi, e con disincanto sorrido all’idea di aver dubitato delle mie capacità di calciatore e di uomo. Eppure, in certi momenti di profondo sconforto dovuti alla gravosa condanna del calcioscommesse, mi sembrava impossibile poter rigiocare a certi livelli. 
A ventitré anni mi sentivo un calciatore finito, un talento inutile. Ero distrutto, talmente ferito da non avere più nemmeno la voglia di esultare per un pallone che terminava la sua corsa dritto in rete. Neanche se a buttarlo dentro fossi stato io. Tantomeno mi gratificava quella gente alla quale ero abituato, e affezionato, che continuava a stringermi la mano facendomi capire che credeva nella mia innocenza. All’improvviso l’universo che mi apparteneva, dove da tempo venivo considerato un semidio, mi si è rivoltato contro pugnalandomi alle spalle con un giudizio sbagliato e vigliacco. 
Non ero riuscito a convincere i giudici della CAF — la commissione d’appello federale che sentenzia in via definitiva sulle imputazioni nei confronti delle decisioni assunte dal giudice sportivo nazionale in materia d’infrazioni disciplinari — sulla mia estraneità allo scandalo della partita Avellino - Perugia, nonostante il processo penale si fosse chiuso a mio favore perché “il fatto non costituiva reato”. 
Per salvarmi dall’accusa di “illecito sportivo” avrei dovuto farmi coraggio e denunciare Mauro Della Martira, e prendermi sei mesi di squalifica solo per aver omesso quello che sapevo e che in molti conoscevano. Ma come si fa a denunciare un compagno di squadra? Il mio errore è stato tacere, cercare ingenuamente di proteggere Mauro. E mi sono ritrovato dalla sera alla mattina con tre anni da scontare lontano dal campo di calcio, poi ridotti a due dopo il mio ricorso in appello. Centoquattro settimane di vuoto totale, settecentotrenta giorni di prostrazione. Un lungo, tormentato, odiato esilio, isolato da quell’ambiente nel quale ero cresciuto e dove avevo appena terminato lo svezzamento. Mi sembrava irreale, incredibile, inammissibile. Non poteva essere accaduto proprio a me. Mi sentivo il personaggio perseguitato di un film di fantascienza. Il capro espiatorio di una vicenda tristemente folle, vittima ideale di una decisione dissennata. È stato l’incubo perfetto, quell’incontro di Avellino. Era il 30 dicembre del 1979, l’ultima partita dell’anno da aggiudicarsi e poi tutti a casa. Le circostanze hanno invece voluto che finisse sul 2 a 2, con una mia doppietta, e il gol del pari a un minuto dallo scadere, in mischia nell’area piccola. il mio giardino personale. Per l’accusa una serie di concomitanze diaboliche. 
Pensavo di venirne fuori svegliandomi una mattina e scoprendo che si trattava di una banale allucinazione, di uno stupido errore. Come quando ti muore una persona cara e speri che il giorno seguente la realtà sia diversa. Ma come quando perdi un tuo affetto non andò così, e non mi rimase altra scelta che iniziare a elaborare il lutto. Un dolore lacerante, dalle ferite croniche. Soprattutto se conosci la verità e ti viene negata. Ho meditato per settimane sulla possibilità di lasciare l’Italia e smettere. Mi ha salvato la consapevolezza di essere innocente. 
L’ho detto e ridetto nel tempo, e mi ripeto ancora oggi, come se fosse l’ennesima confessione a cuore aperto. dopo aver interamente scontato la mia pena: quella partita allo stadio Partenio si giocò regolarmente. Non c’è stata nessuna combine, nessun accordo fra le due squadre o fra i giocatori. Io segnai due volte, mi capitava spesso. Con il Perugia in quella stagione avevo realizzato tredici reti in ventotto gare e il Mondiale fu La conferma della mia facilità al gol. Era il mio ruolo, il mio compito. Nessuno mi favorì nel mettere tra i pali quelle due palle. Nessuno parlò mai di soldi. Oltre ai compensi dovuti, non ho mai preso un centesimo in più, né dal calcio, né dai millantatori che lo circondano. 
Mauro Della Martira, il giorno prima della partita, mi presentò solo un tizio strano, tale Massimo Cruciani, commerciante all’ingrosso di ortofrutta che tramite Alvaro Trinca, proprietario di un ristorante nella capitale rifornito dallo stesso Cruciani, era entrato in contatto con personaggi che lo avevano convinto a scommettere su alcune partite di serie A. Secondo loro, combinate. Tabellini alla mano, però, non tutti i risultati “prospettati” si verificarono e Cruciani perdette una consistente somma di denaro, tanto da denunciare il fatto alla Procura della Repubblica di Roma sostenendo di essere stato truffato. Ne seguirono condanne a fiume, la mia compresa. 
Ma per quanto mi riguarda, Cruciani, durante una brevissima conversazione nella hall dell’albergo di Vietri sul Mare (dove mi trovavo in ritiro con la squadra), mi fece sapere, tramite Mauro, di essersi sentito con i calciatori dell’Avellino, i quali avrebbero voluto pareggiare contro il Perugia, dove giocavo all’epoca da quando il presidente Franco D’Attoma — persona di stile, della quale conservo un ottimo ricordo — mi aveva ingaggiato in prestito dal Vicenza — appena retrocesso in B —, per settecento milioni di lire. Il contratto era stato perfezionato a Follonica, nella tenuta di Valmora di Giussy Farina, tra quest’ultimo e D’Attoma in persona. 
C’era stato anche un colloquio telefonico con Corrado Ferlaino, che mi voleva al Napoli. Declinai l’offerta, spiegandogli che desideravo andare in una squadra costruita per vincere. Erano legittime ambizioni di un giovane giocatore nel pieno della sua marcia. Non potevo rischiare di finire la carriera senza conquistare qualcosa di significativo. Il mio rifiuto fu vissuto dai napoletani come un atteggiamento snobistico, mi scrissero di tutto, accusandomi di essere razzista. Me ne dispiace ancora, ma avevo chiesto a Ferlaino una squadra che potesse competere in campionato e nelle coppe internazionali: non me ne dette mai garanzia. Solo sei anni dopo, con l’avvento di Maradona, il Napoli cominciò a fare sul serio. Anche la Juventus intendeva riacquistarmi, dopo avermi perso alle buste con il Vicenza di Farina, ma i rapporti fra le due società erano ancora tesi. Milan e Inter non furono da meno nel pressing per assicurarsi le mie prestazioni, ma non se ne fece nulla per evitare di scatenare un’asta. Alla fine, l’opzione più gradita fu il prestito al Perugia. Farina trattò con D’Attoma, io acconsentii. La Juventus rimaneva il sogno. 
Tornando a Cruciani, con la mediazione di Della Martira gli risposi che "un uomo da solo non può fare nulla, nemmeno con i miracoli!”. La sera ne parlammo con la squadra, interrompendo una divertente tombolata, ma nessuno prese in considerazione quella proposta che reputammo tutti contraria ai nostri principi etici e sportivi. Non avevamo bisogno di quel pareggio, non se ne fece nulla. In albergo riprendemmo le nostre sfide a tombola, a scacchi, a carte e a biliardino, senza dare più peso a ciò che era accaduto. 
L’indomani la partita si svolse correttamente. Feci il mio dovere, ma quella conversazione per interposta persona mi costò molto cara. Il 27 aprile 1980 giocai la mia ultima partita, Juventus - Perugia, terminata sul 3 a 0. Poi l’amaro “confino”. 
Provate a immaginare un giovane di ventitré anni, all’apice della sua carriera, corteggiato dalle squadre più forti e dagli sponsor di ogni settore, alle prese con un torbido faccendiere. Cosa mi avrebbe potuto dare in più di quello che già possedevo? Non mi mancava il successo, non mi mancavano i soldi, non mi mancava la popolarità. Avevo il mondo nelle mie mani e una carriera in ascesa. Solo un pazzo avrebbe buttato una vita invidiabile per niente. Purtroppo non sono stato creduto, o magari, essendo uno dei giocatori più in vista all’epoca, sono stato “usato” come esempio di punizione eccellente . Cinque anni dopo Cruciani confermò le mie convinzioni ammettendo che fui tirato in ballo solo perché ero un simbolo. Anche per questo, mi piacerebbe ancora oggi conoscere le motivazioni che portarono i giudici sportivi a condannarmi, non avendo in mano nessuna prova che dimostrasse la mia colpevolezza. Cosa cambierebbe? Chi potrebbe ripagare me e la mia famiglia del dolore subito e delle lacrime versate? 
Per un minuto e mezzo di chiacchierata sono stato derubato di due anni di carriera nel periodo di maggior splendore, quando dagli addetti ai lavori del mondo del calcio venivo considerato un astro nascente. All’improvviso mi apparve tutto assurdo, perfino quello sport che avevo amato fin da bambino e per il quale avevo lasciato presto la mia casa e la mia famiglia. Ero alla deriva. 
Paolo Rossi era innocente. Pagò con due anni di squalifica le accuse di tre testimoni falsi e l’eccesso di zelo dei giudici sportivi che, colpendo lui, un intoccabile per di più con l’aria da bravo ragazzo, poterono dimostrare di non avere guardato in faccia nessuno e di avere un solo obiettivo, la salvezza dello sport più popolare, il calcio. 
Lo sostiene Fabrizio Corti, impiegato del comune di Roma, assessorato alla Nettezza urbana. Chi è Corti? Il portaborse, l’uomo ombra, il factotum di altri due personaggi romani un po’ più noti (per mesi, nel 1980, tennero le prime pagine dei giornali): Massimo Cruciani, fruttivendolo, e Alvaro Trinca, proprietario di un ristorante. Trinca e Cruciani furono i due accusatori principali nel processo che provocò un terremoto nel mondo del calcio. E Corti fu sempre accanto a loro, come testimone e anche come detenuto, quando tutti e tre finirono in galera. Un testimone straordinario, dunque... 
“Corrado De Biase mi chiese più volte: ‘È proprio sicuro che Rossi abbia preso i soldi?’. Io risposi sì, senza fare una piega. Contro Paolo Rossi non c’era uno straccio di prova, solo la testimonianza mia, di Trinca e di Cruciani. Ma Trinca e io abbiamo avuto la colpa di dare retta a Cruciani, d’averlo appoggiato contro Paolo Rossi.” 
Cruciani, pochi anni dopo, ha scagionato Paolo Rossi. Troppo tardi. 

(Oliviero Beha, Roberto Chiodi, ‘La verità ha fatto gol ma a tempo scaduto’, “Epoca”, 26 aprile 1985)