venerdì 11 maggio 2012

Carmelodramma, Carmelo Bene e la sua Salomè


Penultima avventura davanti (e dietro) l’odiata macchina da presa, Salomè è probabilmente (oltre al diavolo) il sunto della poetica cinematografica iconoclasta e furente di Carmelo Bene. L’incontenibile (e incontentabile) genio salentino, infatti, dopo spudorate rivoluzioni teatrali, nel 1968 inaugura un lustro a 35 millimetri con l’oltraggioso Nostra Signora dei turchi (Leone d’argento alla Mostra di Venezia), per poi proseguire, con altri tre splendidi titoli, la sua opera di disfacimento filmico fino al requiem di Un Amleto di meno nel 1973. 
Cinque anni di sciopero da palcoscenico per dedicarsi esclusivamente a una crociata contro la religione cinema, un culto tanto odiato quanto adulato (Buster Keaton e Joao César Monteiro su tutti), ma che, grazie a Salomè, è così funereo da risultare fecondissimo. Il film infatti è permeato (volutamente o meno) di una forza artistica e creatrice che solo la magia della celluloide è in grado di partorire (con i dovuti genitori) e l’illusionista Carmelo riesce a saldare, in un’unica potentissima lega kitsch, disaccordi e contraddizioni, volgarità e sublime, misticismo e carnalità. Salomè (come d’abitudine, figlia di precedenti parti teatrali) è lo sposalizio della teatrale esuberanza del Barocco (leccese) e dello schiaffo immorale della Pop Art, la danza dei sette veli musicata da Strauss, ma anche le languide, lacrimose note delle canzonette popolari (Rosamunda, Vipera, Valzer spensierato), la tragedia costante e annunciata che all’improvviso si acquieta nello sberleffo cattolico (Cristo ha canini da vampiro degni di Bela Lugosi). Un equilibrio rarissimo che si riflette in specchi opposti, anche grazie alla magnetica fisicità di Bene che straripa a ogni inquadratura pur conservando un essenza quasi impalpabile ed eterea (Erode non è che il simbolo del paganesimo in totale dissoluzione). In Salomè l’orgia non si nutre solamente del malriuscito party del tetrarca, ma si impossessa della macchina da presa generando una baldoria registica capace di ben 4500 inquadrature, di un cacofonico concerto di voci stridule, di acrilici impazziti che esasperano gli occhi e di primissimi piani di corpi condannati al cupio dissolvi. Anche le scenografie (realizzate dall’artista Gino Marotta) sono un baccanale visivo senza precedenti: la corte di Erode è una sorta di isola galleggiante e sempre in movimento, piena di palme coloratissime, di tavolate lussureggianti, di uomini e donne adornati di fiori (di plastica). 
Lo stupore visivo è reso ancora più sconvolgente dall’aggiunta (sui corpi, sugli oggetti e sui costumi) di tessere luminose in grado di creare una sorta di “effetto mosaico” (grazie all’uso dello scotchlite, un materiale rifrangente che, opportunamente illuminato, crea un effetto di acrilica bellezza). 
Nell’antico delirio barocco, il cast è squisitamente in sintonia con la modernità dell’epoca grazie alla scheletrica musa (afroamericana/warholiana) Donyale Luna (la principessa Salomè) e all’abbagliante carnalità delI’iconissima Veruschka (Myrrhina). Entrambe ammaliano le orbite impazzite di un Carmelo/Erode quasi sempre turgido e nudo fino alla redenzione finale, che pare tramutano in creatura mistica e celestiale quando ormai la negazione della matrice divina Beniana può rivelarsi solo pura blasfemia.

(testo di Cecilia Ermini, estratto dal settimanale FilmTV, 11 marzo 2012)

3 commenti:

  1. Ottima recensione di un film allucinante (nel senso letterale del termine). Uno dei miei film preferiti, ma non bello come il film a cui fa riferimento il nome e lo sfondo di questo blog. A proposito, interessante questo blog. Ciao

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  2. Ciao, grazie per i complimenti. E' vero, Cecilia scrive veramente bene.
    2046 è uno dei film cardine della nostra educazione sentimentale.

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