Penultima avventura davanti (e dietro) l’odiata macchina da
presa, Salomè è probabilmente (oltre al diavolo) il sunto della poetica
cinematografica iconoclasta e furente di Carmelo Bene. L’incontenibile (e
incontentabile) genio salentino, infatti, dopo spudorate rivoluzioni teatrali,
nel 1968 inaugura un lustro a 35 millimetri con l’oltraggioso Nostra Signora
dei turchi (Leone d’argento alla Mostra di Venezia), per poi proseguire, con
altri tre splendidi titoli, la sua opera di disfacimento filmico fino al
requiem di Un Amleto di meno nel 1973.
Cinque anni di sciopero da palcoscenico
per dedicarsi esclusivamente a una crociata contro la religione cinema, un
culto tanto odiato quanto adulato (Buster Keaton e Joao César Monteiro su
tutti), ma che, grazie a Salomè, è così funereo da risultare fecondissimo. Il
film infatti è permeato (volutamente o meno) di una forza artistica e creatrice
che solo la magia della celluloide è in grado di partorire (con i dovuti
genitori) e l’illusionista Carmelo riesce a saldare, in un’unica potentissima
lega kitsch, disaccordi e contraddizioni, volgarità e sublime, misticismo e
carnalità. Salomè (come d’abitudine, figlia di precedenti parti teatrali) è lo
sposalizio della teatrale esuberanza del Barocco (leccese) e dello schiaffo
immorale della Pop Art, la danza dei sette veli musicata da Strauss, ma anche
le languide, lacrimose note delle canzonette popolari (Rosamunda, Vipera,
Valzer spensierato), la tragedia costante e annunciata che all’improvviso si
acquieta nello sberleffo cattolico (Cristo ha canini da vampiro degni di Bela
Lugosi). Un equilibrio rarissimo che si riflette in specchi opposti, anche
grazie alla magnetica fisicità di Bene che straripa a ogni inquadratura pur
conservando un essenza quasi impalpabile ed eterea (Erode non è che il simbolo
del paganesimo in totale dissoluzione). In Salomè l’orgia non si nutre
solamente del malriuscito party del tetrarca, ma si impossessa della macchina
da presa generando una baldoria registica capace di ben 4500 inquadrature, di
un cacofonico concerto di voci stridule, di acrilici impazziti che esasperano
gli occhi e di primissimi piani di corpi condannati al cupio dissolvi. Anche le
scenografie (realizzate dall’artista Gino Marotta) sono un baccanale visivo
senza precedenti: la corte di Erode è una sorta di isola galleggiante e sempre
in movimento, piena di palme coloratissime, di tavolate lussureggianti, di
uomini e donne adornati di fiori (di plastica).
Lo stupore visivo è reso ancora
più sconvolgente dall’aggiunta (sui corpi, sugli oggetti e sui costumi) di
tessere luminose in grado di creare una sorta di “effetto mosaico” (grazie
all’uso dello scotchlite, un materiale rifrangente che, opportunamente
illuminato, crea un effetto di acrilica bellezza).
Nell’antico delirio barocco,
il cast è squisitamente in sintonia con la modernità dell’epoca grazie alla
scheletrica musa (afroamericana/warholiana) Donyale Luna (la principessa
Salomè) e all’abbagliante carnalità delI’iconissima Veruschka (Myrrhina).
Entrambe ammaliano le orbite impazzite di un Carmelo/Erode quasi sempre turgido
e nudo fino alla redenzione finale, che pare tramutano in creatura mistica e
celestiale quando ormai la negazione della matrice divina Beniana può rivelarsi
solo pura blasfemia.
(testo di Cecilia Ermini, estratto dal settimanale FilmTV, 11 marzo 2012)
Ottima recensione di un film allucinante (nel senso letterale del termine). Uno dei miei film preferiti, ma non bello come il film a cui fa riferimento il nome e lo sfondo di questo blog. A proposito, interessante questo blog. Ciao
RispondiEliminaCiao, grazie per i complimenti. E' vero, Cecilia scrive veramente bene.
RispondiElimina2046 è uno dei film cardine della nostra educazione sentimentale.
Hi great reading your bloog
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