Tragicomicamente, la vita. Senza scalini, senza pause o sfumature nei cambi di registro, nessun rallentie nei saliscendi sulle montagne russe del trash più oltraggioso, il trash la cui faccia resta inflessibilmente di bronzo, senza vergogna di sorta, che continua ininterrottamente a dare il peggio di sé, anche quando sembra essere davvero troppo, anche quando ci si aspetterebbe una reazione e invece l’ unica direzione resta una pervicace inflazione. Vertice europeo di un isoscele immaginario che vede la sua base correre aldilà dell’ oceano tra Lebowski e The Simpsons, il terzo lungometraggio di Felix Van Groeningen affonda le mani nella terra fredda e bagnata delle Fiandre, nel substrato di una cultura lontana dagli splendori e dalla prosopopea della capitale d’Europa, in una società drammaticamente appiattita su sé stessa, scoraggiante e scorreggiante, follemente anarchizzata da quello che sembra essere l’ unico, invalicabile ed immortale burattinaio di tutti i destini: l’ alcool.
Tratto da un recente best seller dell’ editoria fiamminga, il film applica la struttura classica del ricordo biografico dello scrittore ancora inedito che rivede il suo passato ed in esso le ragioni del suo presente, risalendo fino alla prima metà degli anno ’80 nella piccolissima provincia belga, schiacciata sotto cieli grigi e pennellata in toni slavati da una telecamera a spalla che mette lo spettatore accanto ai protagonisti ed alle loro bieche consuetudini. Nei suoi ricordi l’ Io narrante Gunther (Valentijn Dhaenens ne è l’interprete adulto, visibilmente un attore molto preparato, con punte di elevato talento palpabile nei numerosi soliloqui di pensiero, nonostante l’osticità della lingua) racconta l’humus della sua educazione-formazione, trascinata con l’anima tra i denti in una famiglia composta dal padre (la madre non ha resistito a lungo) ed i suoi tre zii (tutte interpretazioni molto più che suffucienti, caratteri tagliati con l’ascia, un look degno dei periodi più bùi dell’ heavy metal ma capaci di sciogliersi in lacrime davanti ad una "Pretty woman" live di Roy Orbison), tutti, benchè più che adulti, a vivere nella casa natale con una madre disperatamente capace di reggere l’assurdo menage.
Svezzato a birra schiumante un orgoglio costantemente sbandierato di far parte di loro, di essere uno Strobbe, benchè tale lignaggio non comporti che instabilità finanziaria e psichica, il giovane Gunther, dotato di una sensibile capacità critica, ed una crescente volontà di sfuggire dal "merdaio" circostante, affronterà con naturale disincanto delle prove durissime regalategli dal suo frizzante entourage quali condividere la stanza con uno zio votato a conquiste femminili che consuma nel letto accanto al suo e che non esiterà a sedurre la giovane di cui Gunther si innamora, assistere fieramente a colossali bevute agonistiche con esponenti della sua famiglia, per una volta, sugli allori, o ancora essere respinto dal suo unico amico in quanto discendente di una famiglia di "marginali", o svegliare suo padre crollato la notte in una pozza di vomito. Ed è probabilmente proprio questo il focus dell’ opera premiata dalla Quinzaine a Cannes: l’archetipo della paternità fallita che cerca giustificazioni dappertutto e mai comprenderà le colpe che invece albergano dentro di sé: "Odio due donne: una mi ha messo al mondo, l’altra sta per partorire mio figlio." Così si esprime il Gunther adulto dopo aver invano tentato di sfuggire alla paternità e presentendone l’ insormontabile impegno, mentre i piani continuano delicatamente ad oscillare tra presente e passato fino alla sua piccola rivincita morale nei confronti di un destino fino ad allora votato alla disfatta, come un personaggio di Zola costretto per genetica a restare tra gli ultimi e che rianalizzando e raccontando il suo vissuto lo esorcizza, raggiungendo il suo desiderio di vivere dei suoi racconti, mentre continuano ad affiorare i ricordi, ininterrotti come bollicine in una grossa coppa di birra belga, ancora scura ma, dopo tanto tempo, meno amara.
Carlo Ligas
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