L’ultimo film di Michael Mann è il nocciolo di una vita vissuta alla velocità della luce, le ultime otto settimane spericolate del rapinatore di banche John Dillinger, e la sintesi della sua evoluzione artistica, della perfezione formale nell’utilizzo del digitale, dei suoi inimitabili codici narrativi - qui asciugati all’osso.
La mitologia del regista americano, quella fatta di duellanti che si sfidano, si confondono, si mescolano e si immedesimano nella controparte (Manhunter, Heat, Collateral, Miami Vice), viene incalzata fino ad un punto di non ritorno, sia a livello formale che dal punto di vista narrativo. Resteranno delusi gli amanti del gangster-movie tradizionale e chi ancora chiede ad una pellicola la crescita di tensioni classiche, l’eterodossia dell’esposizione, del conflitto e dello scioglimento. Ci sono anche qui, ma in maniera diversa, esposte in una poetica che, sin dagli esordi della serie televisiva di “Miami Vice” , non scende al minimo compromesso, che usa il genere e i budget hollywoodiani (quest’ultima fatica è costata 80 milioni di dollari) per la sua personale riflessione sulla tecnica e il linguaggio cinematografico. Il suo digitale è una nuova lingua, un territorio liminare, che richiede un abbandono totale, ma che contraccambia con un esperienza estetica ed emotiva unica.
La mitologia del regista americano, quella fatta di duellanti che si sfidano, si confondono, si mescolano e si immedesimano nella controparte (Manhunter, Heat, Collateral, Miami Vice), viene incalzata fino ad un punto di non ritorno, sia a livello formale che dal punto di vista narrativo. Resteranno delusi gli amanti del gangster-movie tradizionale e chi ancora chiede ad una pellicola la crescita di tensioni classiche, l’eterodossia dell’esposizione, del conflitto e dello scioglimento. Ci sono anche qui, ma in maniera diversa, esposte in una poetica che, sin dagli esordi della serie televisiva di “Miami Vice” , non scende al minimo compromesso, che usa il genere e i budget hollywoodiani (quest’ultima fatica è costata 80 milioni di dollari) per la sua personale riflessione sulla tecnica e il linguaggio cinematografico. Il suo digitale è una nuova lingua, un territorio liminare, che richiede un abbandono totale, ma che contraccambia con un esperienza estetica ed emotiva unica.
E’ una nuova immersione, non esistono più soggettive o controcampi: siamo costantemente adagiati sul corpo della messa in scena, viaggiamo sicuri su ogni scheggia, su ogni sguardo, come una remora sullo squalo. La camera accarezza continuamente il muso delle vetture in movimento, le sparatorie sono riprese a pochi centimetri dalla canna del fucile, come fossero una falsa soggettiva dell'automobile, del proiettile e ne diventassimo la traiettoria. Non siamo più spazio inerme da impressionare ma parte in causa di un iperrealismo di foggia straordinaria. Tutto pare sparpagliato, sezionato, un puzzle che cola e ci macchia di transitorio, di energia che si perde, sprofonda e si trasforma. La tecnica che si usa e la storia che si racconta si compenetrano, sembrano un tutt’uno: un salto nel vuoto. Pallottole che deflagrano sui muri, sulle finestre, rumori, urla, spari (piace molto l’assenza di accompagnamento musicale durante le sparatorie, asciuga la violenza in un realismo ancora più ipertrofico) nessuna visione d’insieme, con un uso devastante della fotografia di Dante Spinotti, fatta di cromatismi, sfumature, chiaroscuri sovraesposti (con una sparatoria nel bosco da antologia). Tutte le figure sono prese nell’atto di uscire dal campo, le inquadrature decentrate, in una sospensione tra l’esserci e il nulla. Una corsa ripresa dalla metà fino al traguardo. Senza partenza e rincorsa. I muscoli della storia già tesi, pieni di acido lattico: solo coinvolgimento, azione e dannazione, spargimento di sangue e di baci. Eppure, tra forma e apologo, ne deriva un totale esaltante. Ogni scena, ogni inquadratura è l’essenziale di quell’attimo, ogni gesto netto e rapido ma poroso di conseguenze e rimandi.
E in questa “sfuggenza” poteva essere travisata anche l’interpretazione di Johnny Deep, quando invece la sua aderenza a Dillinger non è fatta di attriti ma di intima sicurezza, nessuna posa classica e persistente da gangster di genere ma l’espressione pulita di un durante, la calma assoluta di un uomo ben conscio di essere un fantasma con un destino già scritto, da raggiungere con rassegnato furore.
Deep/Dillinger è un apparizione che sfugge via anche dalla trama, un attentato all'iconografia epica; quasi invisibile come nella scena al cinema, dove tutti vedono la sua foto segnaletica proiettata sul grande schermo ma non lui seduto nelle file centrali. Come nella splendida sequenza in cui entra, trasparente, nel commissariato di polizia senza essere riconosciuto o come muore all’uscita del cinema, dopo aver visto un film a lui ispirato, fluttuando, danzando leggero tra la folla, mentre la sua nemesi, Melvin Purvis (un Christian Bale preciso ed essenziale), fino a quel momento implacabile, è talmente impacciato da non riuscire neppure ad estrarre la pistola. Johnny Deep recita uno spettro, uno sconosciuto che passa davanti alla piccola digitale di Michael Mann mentre quest’ultimo scatta forsennatamente foto ricordo del 1934 perché la macchina del tempo sta per ripartire.
Come dice Ghezzi, in un momento di lucidità, “questo è il cinema che ci tocca senza che lo guardiamo, che lo riconosciamo”, che arriva per vie traverse e magiche. Charles Winstead (il marmoreo Stephen Lang), l’agente che ha ucciso Dillinger con un colpo di pistola alla nuca, porta a Billie Frechette (una bellissima Marion Cotillard) le ultime parole del suo amato in fin di vita: ”Di’ a Billie da parte mia “Bye Bye Blackbird”. Poi chiude la porta della stanza per i colloqui e chiude il film. Il sogno futurista del regista di Chicago, termina come il più classico dei film di John Ford, come fosse un rispettoso passaggio delle consegne tra un glorioso, antico modo di raccontare e queste nuove visioni arse dalla febbre.
Voto: 8,5
Luca Tanchis
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