Questo libro è già impaginato,
adesso, mentre scrivo la prima frase, che è questa. Sono mesi e mesi
che Mauro Ronconi mi chiede di dire qualcosa sulla canzone. Sono mesi
e mesi che io non ho nulla da dire.
Oggi è un giorno di maggio (il
libro è impaginato) e Mauro mi dice: "Fammi un regalo".
Ecco il regalo, è come se avessi in mano il pacchetto. Lo vedo, così
come si vedono subito le cose immaginate quando sono semplici: hanno
la prontezza degli inganni ad apparire, la scherzosa insolenza degli
abbagli a sparire. La carta che lo riveste, benissimo piegata, è
rossa. Cosa vuol dire rossa?
Vuol dire che sto dicendo la verità.
Il nastro che lo infiocca è verde. Cosa vuol dire verde? Non vuol
dire niente, non vuol dire altro.
Vedo tutto, vedo perfino le mie
mani. E fanno quattro, sommate a quelle con le quali, dita sulla
tastiera, sto scrivendo.
So tutto, vedo tutto, vedo anche quello
che non c'è. Una cosa non so: cosa ci sia nel pacchetto. Io non so,
non so cosa sia "parlar di canzone". Mi è capitato di
dirne tante, sopra/sotto, a destra/a sinistra, in alto/in basso; e
poi mi è capitato di dirne poche, un po' al di sopra, un po' al di
sotto, un po' più a destra, un po' più a sinistra, un po' più in
alto, un po' più in basso (sembrava che stessi comodo, seduto, e che
dessi indicazioni a una bella sistematrice di oggetti su mensole, per
poi vedere l'effetto, e l'effetto era come si muoveva lei); e poi non
ne voglio dire più.
Sì, faccio il muso, faccio il
capriccioso, insomma state accorti: è capace che vi rivolti la
minestrina canzone sulla testa, stelline e tutto. Sono mesi e mesi
che non so, e adesso non so nemmeno quale sia il regalo.
O, forse, il
regalo è questo: nastro e carta, colori complementari, parole e
musica. Ho tra le mani, e tra poco non più, la curiosità di sapere
cosa c'è dentro. E adesso eccola a voi.
Cos'è la curiosità? E' mettersi a
disposizione di ciò che non si sa cosa sia.
E la curiosità è
attesa, attesa di sé, di un sé che non sa. Se uno lo sapesse, gli
si inumidirebbero gli occhi. Se uno sapesse dell'attesa di sé, non
se uno sapesse cosa c'è dentro. Quel che c'è dentro si può anche
polverizzare, anzi deve, può scoppiare con un piccolo sussulto della
scatola, che trasmette un battito, solo un battito in più, dispari,
nel petto di chi la riceve; può essere un orologio il cui vetro si
frantuma e il cui tempo si ferma.
Allora lì dentro c'è qualcosa
come una piscina, come un lago, come un sonno, come braccia aperte, una
cosa nella quale si può cadere, ma non come l'estate o le palestre,
non come quei frustrati tuffi da turista, non come il sonno per
mettere sopra di noi la notte come una pietra sopra.
No, c'è
qualcosa di definitivo, come un abbandono in sè, come un cadere tra
le braccia proprie, a braccia aperte tra le stesse braccia aperte;
poi le braccia come l'acqua si richiudono. L'acqua è semplice, come
un essere umano che dorme, lasciamo perdere le vigliacche
insinuazioni sui sogni che hanno già scimunito parecchie
generazioni, lasciamo le alghe alle alghe, stringano tra loro i loro
soffocanti legami, lasciamo il fondo al fondo. Cosa c'è oltre il
fiocco e la carta? Non c'è niente, ma ci puoi cadere dentro.
E cosa
senti? Magari, anche qui, qualcosa di simile al niente: inconsistente un
abbandono. Conoscete due abbandoni nella vita, l'abbandono che non
sopportate e l'abbandono che desiderate. Questo abbandono qui è
quello che volete, che desiderate, è il magnifico senso di negazione
del resto. Come succede solo quando ci si butta, ci si sperpera in
quella cosa delle quale non so che dire, e della quale qui non parlo:
la canzone.
E' lì che voi cadete tra le vostre braccia. E' lì che
siete soli volendolo essere.
Conoscete in cuor vostro la segreta
smentita di una di quelle pusillanimi avventure imprenditoriali della
mistificazione: la musica che aggrega (già è brutto il verbo)
statisticamente. La musica forse sì, al più basso livello di sigla
opportunista di un'appartenenza, che è derelitta collusione con
organizzazione e impresariato (il pubblico alle volte è manager
pagante), ma la canzone no.
Chi fa veramente una canzone, il suo
artefice, è colui che l'ascolta, e l'ascolta come un richiamo
finalmente egoista, escludendo il resto. E non c'entra la musica, le
parole non c'entrano.
Non c'entra il bello e il brutto: una
canzone è bella e brutta nello stesso momento, il suo momento. E'
come il nulla.
Forse può giudicarla soltanto chi,
quella canzone, non l'ama, e dice: non vale niente. E chi non ama
quelle che un altro ama, giudicherà quelle dell'altro: non valgono
niente.
E' così, va bene così, è vero così.
Ma, nella tua canzone, chi c'entra sei solo tu.
Ti ascolti ascoltare,
tu sei tu, e in te non c'è più posto per non esserlo, diventi un
segreto.
Una canzone è di uno solo al mondo, e
quell'uno è il mondo, tutto torna, tutto gira, come la terra e i
dischi e, forse, l'universo, del quale tu sei il centro.
Pasquale Panella
(prefazione di: 100 dischi ideali per capire la NUOVA CANZONE ITALIANA, di Mauro Ronconi, Editori Riuniti 2002)
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