Mario Vargas Llosa aveva da un po’ di tempo la sgradevole sensazione che lo stessero prendendo in giro. Cominciò a provarla visitando mostre e biennali, nell’assistere ad alcuni spettacoli, nel vedere determinati film e programmi tv, e gli accadeva anche quando si adagiava in poltrona a leggere certi libri o riviste. In quei momenti, come lui stesso racconta, lo coglieva la sensazione, poco definita al principio, di essere «indifeso di fronte a una sottile cospirazione» per farlo sentire incolto o stupido, per fargli credere che una frode era arte; un imbroglio, cultura. Da quella sensazione è sorta una convinzione e da questa un saggio, ‘La civilizaciòn del espectaculo’, edito in Spagna da Alfaguara. Nelle sue pagine, il Nobel per la Letteratura disseziona la trasformazione della cultura in un caos nel quale “poiché non c’è modo di sapere che cosa sia cultura, tutto è cultura e più nulla ormai lo è”. Questo dissolvimento di gerarchie e punti di riferimento è una conseguenza, per Vargas Llosa, del trionfo della frivolezza, del dominio dell’intrattenimento. Ma gli effetti di questo clima di banalizzazione estrema non si limitano alla cultura.
Lei sostiene che la cultura è diventata banale, che l’erotismo è sconfitto a favore della pornografia, che il postmoderno è, in parte, un esperimento fallito... C’è una scappatoia?
«Si può senz’altro sperare in un rinnovamento della vita culturale e che essa abbandoni il tratto sempre più frivolo, superficiale, che è una delle sue caratteristiche principali oggi. Non l’unica, perché ci sono eccezioni alla regola, per fortuna. Questa banalizzazione ha delle conseguenze non solo nel campo della cultura, ma in tutti gli altri. Per questo nel libro mi riferisco alla politica, alla vita sessuale, ai rapporti umani. Tutte queste cose possono essere molto colpite se la cultura vive nella banalizzazione, nella “frivolizzazione” permanente».
Questo le dà la sensazione di essere preso in giro. Da quando?
«E’ un processo, non succede all’improvviso. Ma ricordo lo shock che fu per me, qualche anno fa, visitare la Biennale di Venezia, che era un vetrina del prestigio e della modernità, dello sperimentale. A un certo punto, dopo averla percorsa per un paio d’ore, giunsi alla conclusione che lì c’era molta più frode e imbroglio che serietà, che profondità. Per me fu un’esperienza piuttosto importante, che mi portò a riflettere. Alla fine del saggio, racconto come abbia arricchito la mia vita leggere buoni libri, conoscere la grande tradizione pittorica, il mondo della musica, come questo abbia dato un senso, un ordine, un’organizzazione al mondo. Me lo ha reso molto più interessante, ricco, stimolante. Credo che sarebbe una tragedia se proprio in un’epocain cui c’è un progresso tecnologico, scientifico e materiale straordinario, la cultura si trasformasse in puro intrattenimento, in qualcosa di superficiale, lasciando un vuoto che niente può riempire, perché nulla può sostituire la cultura quando si tratta di dare un senso più profondo alla vita».
La sua opera non è un esempio del fatto che la capacità di autocritica sopravvive?
«Sì, ma è preoccupante che la ricchezza più grande sia nel passato più che nel presente. E c’è un altro aspetto. Oltre alla frivolezza l’altro problema è l’oscurantismo bugiardo che identifica l’oscurità con la profondità e che ha portato la critica a degli estremi di specializzazione che la mettono al margine rispetto al cittadino comune, all’uomo mediamente colto al quale prima la critica serviva per orientarsi davanti a un’offerta così enorme».
Ma lei propone di tornare a dei modelli culturali. E’ possibile?
«Non tutti possono essere colti alla stessa maniera, non tutti vogliono essere colti alla stessa maniera e non tutti dovrebbero essere colti alla stessa maniera, ci mancherebbe. Ci sono dei livelli di specializzazione che sono spiegabili, a condizione che la specializzazione non finisca col voltare le spalle al resto della società, perché allora la cultura smette di impregnare l’insieme della società, scompare quel consenso, quei denominatori comuni che ti permettono di discriminare tra ciò che è autentico e ciò che è posticcio, tra ciò che è buono e ciò che è cattivo, tra ciò che è bello e ciò che è brutto».
Lei estende la sua critica alla cucina o alla moda che stanno entrando a far parte dell’alta cultura.
«Questa, infatti, è una delle manifestazioni di quella frivolezza. Non ho nulla contro la moda, ma non credo che possa prendere il posto della filosofia, della letteratura, della musica colta, come referente culturale. E questo è ciò che sta accadendo. Oggi parlare di cucina e parlare della moda è molto più importante che parlare di filosofia o di musica. Questa è una deformazione pericolosa e una manifestazione di frivolezza terribile. Che cos’è la frivolezza? E’ avere un quadro di valori completamente confuso, è il sacrificio della visione a lungo termine per quella a breve termine, per l’immediato. Lo spettacolo è proprio questo».
Questa prospettiva non racchiude un’idealizzazione eccessiva del passato?
«Non sono un conservatore in quel senso, proprio no, e so che nel passato, al tempo stesso di Cervantes, di Shakespeare, esisteva la schiavitù, il razzismo più spaventoso, il dogmatismo religioso, l’Inquisizione, i roghi per i dissidenti... So benissimo che il passato porta con sé tutto questo, ma al tempo stesso non si può negare che in quel passato c’erano cose molto ammirevoli, che hanno segnato profondamente il presente, che hanno arricchito la vita delle persone, la sensibilità, l’immaginazione. E quella era un funzione che aveva l’alta cultura, e oggi non si può nemmeno parlare di alta cultura, perché sarebbe scorretto, politicamente scorretto».
C’è una difesa molto interessante dell’erotismo nel libro, come opera d’arte di fronte al “sesso crudo”.
«L’erotismo è stato nel mondo dell’esperienza la conversione di un istinto in qualcosa di creativo, in una vera opera d’arte e questo è stato possibile grazie alla cultura. E qui cito molto Georges Bataille, che ha sempre difeso l’erotismo proprio come una manifestazione di civiltà, e che è stato molto reticente riguardo alla permissività totale perché credeva che avrebbe ucciso le forme e alla fine si sarebbe giunti, di nuovo, a una specie di sesso primitivo, selvaggio. Qualcosa del genere è accaduto nel nostro tempo».
Cita una gioventù apatica, chiusa nell’ostilità sistematica. Fenomeni come quello degli indignados o di OccupyWallStreet, non le danno speranza?
«Sì, un po’ sì. Sempre che non si orientino nel senso sbagliato. Perché c’è un certo conformismo nella protesta. Foucault ha scritto delle cose interessanti su questo. Tuttavia, credo che ci siano dei fermenti tra i giovani. Le cose possono cambiare per il meglio. Ma su alcuni aspetti è importante una critica molto radicale di un fenomeno che rappresenta una decadenza».
Nelle dittature c’è più corruzione. Ma è lì che la lotta degli intellettuali acquista più senso.
«Assolutamente. E’ un fenomeno al quale stiamo assistendo in Cina: è interessantissimo il caso di Ai Weiwei. Si tratta di una figura che oggi rappresenta lo spirito di resistenza, la volontà di apertura, di modernizzazione, di democratizzazione».
Quando parla di degrado dei valori, comprende anche il sensazionalismo della stampa. Lei crede che l’autoregolamentazione possa essere un modo per limitarlo?
«Credo che sia l’unico. Che la stampa stessa debba assumersene la responsabilità. Non è una cosa che si risolve con sistemi di censura, ci mancherebbe. Penso che il sensazionalismo sia espressione di una cultura».
E c’è un effetto moltiplicatore con le nuove tecnologie.
«Di fronte alle quali ti puoi difendere molto male. Ne ho fatto l’esperienza tempo fa, in Argentina. Una signora si congratulò con me per un testo che l’aveva molto commossa, mi disse, un omaggio alla donna. Le dissi che la ringraziavo molto, ma non avevo scritto nessun omaggio alla donna Pensai che se lo fosse inventato, o che si fosse confusa. Un po’ di tempo dopo mi mandano il mio elogio della donna, comparso su Internet. Un testo di un cattivo gusto tale che mi sono vergognato per chi l’ha scritto, firmato da me e lanciato nello spazio a motivo di non so cosa. Come fai a difenderti?»
Bisogna però riconoscere che Internet e i social network permettono ad artisti e intellettuale di esprimersi all’istante.
«Facendosi beffe di tutti i sistemi di censura: questo è un progresso. Ma al tempo stesso è anche un altro tipo di confusione che ha effetti molto negativi sulla cultura. L’eccesso di informazioni significa anche la scomparsa delle gerarchie, delle priorità. Si colloca tutto a uno stesso livello di importanza per il semplice fatto di stare sullo schermo».
Jan Martinez Ahrens, El Pais 2012
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