La prima volta che ho sentito la parola "Hope" ero molto piccolo. Rimbalzava dagli schermi ai titoli dei giornali, erano gli anni del grande pugilato. Nei pesi massimi, dopo decenni di dominio nero, Gerry Cooney, gigante bianco irlandese, per tutti la "White Hope", affronta per il titolo mondiale il colosso d'ebano Larry Holmes. E perde. Nell'ultima opera di Gus Van Sant la parola "Hope" si ripete tante volte dalle labbra di Harvey Milk fino ad assumere i connotati di un mantra celato, il motivo conduttore che innesta nel film una grande e irreprensibile forza politica.
La storia avviene a San Francisco negli anni '70: le battaglie civili e l'attivismo politico delle minoranze gay di Harvey Milk. Primo Gay dichiarato a ricoprire una carica pubblica negli Stati Uniti e ucciso nel '78 a soli 48 anni. Il regista del Kentucky trova una misura molto accessibile tra la sperimentazione dell'ultimo periodo ("Gerry","Elephant","Last Days" e "Paranoid Park") e i suoi film dichiaratamente mainstream come "Will Hunting - Genio Ribelle" e "Scoprendo Forrest".
"Sono Harvey Milk e voglio reclutarvi tutti." dice il protagonista ad un certo punto, e Van Sant abbandona il suo viaggio quasi sensoriale fatto di visioni e inquadrature spalancate tra i belli e i dannati, le cowgirls, i losers e gli skaters, per prendere in mano il megafono (in piena ebbrezza Obama) e raccontare la storia sua e di Harvey Milk al pubblico più vasto possibile. Ritagliandosi due sole oasi di puro talento immaginifico nella scena in cui Cleve Jones (Emile "intothewild" Hirsch) chiama a raccolta gli amici da una cabina telefonica pubblica e in quella dell'omicidio di Harvey. Sean Penn si supera con una magnifica prova di mimetismo e se vogliamo anche di podismo, perchè soltanto un maratoneta può avere, in qualsiasi inquadratura del film, il fiato per non perdere un solo istante il suo personaggio, seguirlo come un'ombra e sparire senza essere visto al THE END. Ma come è piena di misura anche la prova di James Franco (l'amante di Milk) e di Josh Brolin (il consigliere di San Francisco avversario), ed è splendida protagonista San Francisco stessa che Van Sant ci restituisce piena di colore e di fermento, in linea con l'entusiasmo gay di quei giorni.
Una Cisco dai colori caldi, saturi e sensuali quanto era fredda, geometrica e chirurgica quella criminosa di "Zodiac" di David Fincher. "Sperare in un domani migliore...Io chiedo questo: che se dovesse esserci un omicidio, in cinque, in dieci, in cento, in mille siano a levarsi in piedi. Se una pallottola mi trapasserà il cervello che serva a distruggere ogni muro dietro a cui ci nascondiamo. Io chiedo che il movimento continui perchè non è questione di guadagno personale, non è questione di individualismo e non è questione di potere. E' questione dei "noi" là fuori...e non solo i gay, ma i neri, e gli asiatici, e gli anziani, e i disabili. I "noi". Senza la speranza i "noi" si arrendono. So che non si può vivere di sola speranza, ma senza la speranza la vita non vale la pena di essere vissuta e quindi tu, e tu, e tu...dovete dar loro la speranza, dovete dar loro la speranza." Così dice Harvey nell'ultima registrazione. Alla forma lineare del racconto Van Sant contrappone la sostanza di un messaggio coraggioso, non banale, necessario. Oggi più di ieri. Harvey Milk muore guardando il manifesto della sua amata "Tosca" di Puccini. Ma non muore disperato. La sua speranza adesso vive fuori campo, sulle strade, tra le minoranze gay, tra quelle dei neri, degli anziani, dei reietti. E vince.
Voto: 7Luca Tanchis
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