lunedì 2 maggio 2011

Moebius: Garage contemporaneo

«Sì, mi piace molto teorizzare su tutto quel che accade nel mondo», dice. «Ma non sono mai riuscito a estrarre da questo caos, da questa massa d'informazioni, qualcosa da privilegiare. E il mio lavoro è più un tentativo di sintesi di quel che immagazzino sul mondo circostante. Abbiamo l'illusione della nostra presenza in Tunisia, ad Haiti...e passiamo il tempo a colmare questa illusione del reale mediante il nostro immaginario. Sappiamo di non essere lì, di non essere le vittime di quelle tragedie, ma ugualmente ci proviamo, grazie a tutto il materiale che immagazziniamo, con il cinema, la letteratura, la televisione. Immagazziniamo enormi riserve di realtà in scatola, pronte per essere dirottate nella zona sensazioni. Siamo nella fantascienza, nella misura in cui, da qualche decennio ormai, non si vive più esclusivamente su scala locale: viviamo, senza forse averne sempre consapevolezza, in quanto "terrestri". Questa espansione della coscienza ha una sua contropartita: ovvero che le sensazioni si sono un po' diluite. Non si ha la stessa densità quando si corre in un territorio così vasto rispetto a quando si é concentrati sul proprio villaggio, sul proprio quartiere. Di fatto, più ci si estende e più si diventa porosi e inconsistenti». Dissoluzione, ancora. «Esatto. Il lavoro estetico, oggi, è vittima proprio di questo: gli artisti per la maggior parte si cimentano in opere "distese". Ma se sei un artista e ti vuoi far conoscere, devi lavorare per il "pianeta", per un'arte delocalizzata. Come tutti coloro che fanno dell'arte commerciale, io mi sento un po' strano in questo contesto, perché l'artista commerciale non esiste in quanto persona, ma in quanto savoir-faire. Dev'essere estremamente flessibile, adattarsi a un pubblico: non ha la possibilità nè la capacita di essere universale in maniera deliberata. Lo può divenire, ma come un paesano che non è mai uscito dal suo villaggio. E che dunque ricrea della densità localizzandosi».



(Frammento di un intervista tratta da Rolling Stone, Marzo 2011)

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