domenica 1 dicembre 2013

Jacques Audiard, Il mondo lì dentro


Un ragazzo maghrebino di 19 anni condannato a sei anni di carcere. Sei anni durante i quali imparerà, fondamentalmente, a uccidere per non essere ucciso. Con Il Profeta — candidato agli imminenti oscar come migliore film straniero — il regista Jacques Audiard parla di uomini in gabbia, ma allude alla Francia d’oggi: violenta, multietnica, e non esattamente pacificata.
Specialista nel riaggiornare in chiave contemporanea i generi — il giallo in Sulle mie labbra e il noir di Tutti i battiti del mio cuore — Jacques Audiard con Il profeta (gran premio della giuria a Cannes 2009) affronta in maniera totalmente inedita una classica storia di ascesa sociale tra le sbarre. In sala da fine febbraio, il suo film è tra i più dirompenti e originali della stagione scorsa. Avvincente, violentissimo, fluviale (150 minuti), attraversato da squarci premonitori e mistici, segue la scalata di un criminale maghrebino, da pivellino a braccio destro del capo del clan corso che tiene in scacco la prigione. Nell’intervista che segue il regista ce ne racconta la genesi narrativa e “acustica”. Un prison movie estremamente realista ma lontano da qualunque tentazione documentarista. Un racconto di formazione che prende in prestito dal fantastico la figura del fantasma. Una ricerca identitaria che si fonda sull’ambiente mafioso tipico dell’universo carcerario. Un’opera di bellezza oscura e dall’universo sonoro possente. Il profeta è tutto questo e molto altro: un meraviglioso lavoro di composizione nato da una sceneggiatura originale firmata da Abdel Raouf Dafri e Nicolas Peufaillit, rielaborata da Jacques Audiard e Thomas Bidegain. Quattro uomini per un destino, quello di Malik, un uomo da niente la cui incarcerazione è paradossalmente sinonimo di libertà. Un film la cui ricchezza è forse da cercare nella straordinaria umiltà del suo regista: Jacques Audiard. Di film in film, elabora il genere per meglio circoscrivere le vite interiori dei personaggi, affermando con voce dolce di temere più di ogni altra cosa i discorsi pomposi. 

All’inizio di Il profeta penetriamo nell’universo carcerario attraverso il suono.

«In prigione il suono ha un effetto molto intenso. Quando uscì Tutti i battiti del mio cuore, il comune di Parigi mi invitò a presentarlo nella prigione della Santè. Oltre alla solitudine, di quel luogo mi aveva colpito l’effetto del fuori campo: il contrasto esistente tra il nostro campo visivo e quello che sta al di fuori, il sonoro. Era incredibile. All’improvviso mi sono reso conto che era impossibile il primo piano se la prigione, e dunque le comparse, non esistevano in sottofondo. Il suono ma anche gli sguardi che aleggiano in una prigione. Quando incroci un carcerato, ti squadra in un modo molto particolare, ti qualifica in amico o nemico con occhi nascosti. Il fuori campo è stato dunque parte costitutiva del progetto e in questo sono stato aiutato da comparse eccezionali: molte di loro venivano dalla prigione, sapevano dunque come ci si muove in un cortile. A forza di dettagli come lo yo-yo — oggetto tipicamente carcerario — sono riusciti a fare vivere naturalmente un luogo che altrimenti sarebbe stato soltanto una scenografia». 

In generale hai sempre dato molto spazio al suono nei tuoi film, tanto che verrebbe voglia di scoprirli soltanto ascoltandone l’audio.

«Hai mai provato a farlo? È una mia ossessione. Sono “radiofilo”: amo ascoltare i film. Registravo i film da vhs a musicassetta, con effetti incredibili. Ricordo in particolare La regola del gioco di Renoir, che ho a lungo “ascoltato”, mentre preparavo il Profeta ero ossessionato dall’ampiezza del suono. L’idea era giocare sul contrasto tra spazio sonoro e dimensione dell’immagine. Aspiravo a una musica al limite dell’enfasi, che “allunga” l’immagine del film». 

Abdel Raouf Dafri, sceneggiatore del film, ha offerto un grande contributo al cinema francese. Dobbiamo a lui Nemico pubblico numero 1. Che cosa ti ha colpito della sua scrittura? 

«Abdel ha una fiducia assoluta nella sceneggiatura. Con lui si torna ai valori del racconto, un insieme di puro e di impuro la cui commistione a mio parere fa il cinema. Il ritorno alla fiction è un po’ come riscoprire la ruota. Credo siano stati necessari 20 anni di televisione per arrivarci, con quella specie di follia che è il serial, strumento di rincoglionimento all’ennesima potenza. Sono convinto che il cinema debba quasi inavvertitamente produrre immagini che restano: un viso, una luce, una situazione...a questo proposito, guardo con sospetto le serie tv, che obbligano la gente ad uno stato regressivo totale. A mio parere siamo a livello di una propaganda che non è in grado di generare né immagini né inquadrature. Salverei senz’altro I Soprano, un prodotto notevole, e la prima stagione di Roma e Six Feet Under». 

La grande ironia di Il profeta consiste nell’idea che la prigione serva da ascensore sociale al tuo eroe, Malik.

«In effetti, cosa sarebbe diventato senza la prigione? Una nullità! L’idea era di partire da un personaggio informe e definirlo in primo luogo come un “senza fissa dimora” e non come un arabo, mentre tutti continuano a definirlo tale. E’ un’idea sartriana: quando arriva in prigione, Malik è inesistente dal punto di vista sociale, al punto da non provare sentimenti di appartenenza. Nel film si ricongiungono due storie: quella di un personaggio che ritrova un’identità e quella di un tizio che si aggira sullo schermo e che, alla fine del film, è diventato un attore. Sono due identità che si costruiscono contemporaneamente. Da una parte l’eroe, dall’altra l’attore. Inutile dire che se l’attore non è all’altezza, tutto diventa imbarazzante…». 

Come hai scoperto Tahar Rahim? E’ indubbiamente una vera e propria rivelazione. 

«Sui sedili posteriori di un’automobile! Il regista Philippe Triboit mi aveva invitato sul set di La comune, (serie tv francese, elegantemente scritta da Abdel Raouf Dafri, ndr) e al ritorno mi sono ritrovato seduto sulla stessa auto con Tahar. Anche se non ero in cerca di un attore, mi ha colpito. Quando stavo cercando un attore che interpretasse Malik ho chiesto di incontrarlo. Ma scegliere qualcuno al primo colpo è impensabile. Ho dovuto visionare altri 35 attori prima di tornare a lui». 

Il modo in cui hai diretto gli attori è stato influenzato dalla ‘freschezza” di Tahar Rahim? 

«Mi mette sempre in imbarazzo questa domanda: Lavorare con un attore è fare in modo che lui impari la tua lingua e tu la sua. Ma il processo è molto diverso in funzione dell’attore e dei suoi bisogni. Ogni attore avrà un rapporto diverso con gli spazi e i sentimenti. E’ necessario adattarsi alla specificità del cinema. Oltre alla rapidità con cui tutto avviene, richiede una forma di “denudamento” dell’attore: se si resta distaccati si prova vergogna, ma se si è coinvolti, è necessario mettersi a nudo con lui. Insomma, i set cinematografici sono campi per nudisti...». 

Il regista dichiara tra le fonti d’ispirazione You Gotta Serve Somebody di Bob Dylan (seconda la quale "siamo tutti al servizio di qualcun altro").

A Cannes il regista James Gray (I padroni della notte, Two Lovers, ndr) non ha nascosto il suo sostegno al film: immagino ti abbia fatto piacere. 

«Davvero? Sono commosso, sul serio, è un regista incredibile, lo ha dimostrato soprattutto con Little Odessa e The Yards. Trovo estremamente piacevole il riconoscimento, dichiarato o no, tra registi. A Cannes, in occasione della proiezione del film, quando le luci si sono riaccese ho visto Tarantino applaudire davanti a me. Un momento commovente. A volte mi dico che il cinema serve a questo: entrare in relazione con persone che non si conoscono. E’ incredibile... Esistono registi che mi incantano: Nicolas Winding Refn, con la trilogia Pusher — di una bellezza incredibile — o Tomas Alfredson, con Lasciami entrare. Infine il coreano Bong Joo-ho con L’ospite, un capolavoro assoluto!». 

L’irruzione del rap nel tuo film rappresenta uno spartiacque.

«Vero. Ci sono due momenti nel film in cui la musica è assoluta protagonista; uno sicuramente durante Bridging the Gap di Nas. Ma niente rap francese: avrebbe reso il film illustrativo. Lo avremmo scelto se fosse stato un documentario, ma Nas mi consentiva di restare nell’ambito cinematografico. Ho chiuso il film con Mac The Knife di Jim Gilmore, che volevo utilizzare da 15 anni! Era un ritorno alle origini, a Brecht e alla sua Opera da tre soldi...». 

Hai girato clip musicali. Quanto ha influito sul tuo lavoro di regista? 

«A quei tempi i video offrivano una straordinaria libertà formale. L’unico limite era il budget. La voglia di girarli nasceva dall’averne visti alcuni che mi piacevano. Mi interessava il lavoro di Chris Cunningham, Spike Jonze e Michel Gondry. All’epoca mi sembrava esistesse un legame tra l’arte contemporanea, i video artisti degli anni ’80 e ‘90, e i clip musicali. Oggi non ne sono più sicuro. Ma mi sentivo totalmente libero. Poi ho lavorato con artisti che amavo molto, come Alain Bashung (cantautore e attore francese scomparso nel 2009, ndr), con cui ho fatto La nuit je mens». 

Quale ricordo hai di lui? 

«Un angelo. E’ difficile incontrare qualcuno che possa essere definito un poeta puro. Sembra retorico, ma Alain lo era davvero. Viveva in un universo di parole e di sensazioni. Mi manca». 

A proposito di ricordi: quali sono legati alla collaborazione con tuo padre, il regista e sceneggiatore Michel Audiard? 

«E’ durata troppo poco, e ho molti rimpianti a questo proposito. La cosa curiosa è che il cinema era un elemento estremamente banale in casa nostra, assolutamente desacralizzato. Quando avevo 20 anni, d’estate, era naturale restare a lavorare con lui per tenergli compagnia. Ma nelle nostre conversazioni raramente ci occupavamo di cinema, anche se la sua cultura in proposito era enorme. Faceva parte di quella generazione di francesi testimoni dell’arrivo del cinema americano. Nonostante questo, parlavamo soprattutto di letteratura: Marcel Proust, ma anche Malcom Lowry, Flannery O’Connor o James M. Cain, autori americani che mi ha fatto scoprire proprio lui. Il suo amore per la letteratura era assoluto, senza limiti. Detto questo, credo sia stato un incredibile sceneggiatore... ma come regista non l’ho amato!». 

L’attore Romain Duris (il mezzo malavitoso e aspirante pianista di Tutti i battiti del mio cuore, ndr) ha girato, insieme a Charlotte Gainsbourg, Persécution con Patrice Chéreau (autore, tra gli altri, di Intimacy— Nell’intimità, Son frère, ndr), di cui tu sei stato assistente al montaggio. 

«Il teatro e il cinema hanno sempre svolto un ruolo molto importante per me. Negli anni ‘70 e ‘80 il teatro era il centro di tutto a Parigi, ma anche a Lione, Strasburgo o Berlino. Passavo il tempo spostandomi da un teatro all’altro. Quando nel 1978 mi hanno proposto di lavorare in Judith Therpauve (inedito da noi, ndr) sono impazzito di gioia. Avevo visto tutto di Chéreau. Il suo lavoro era fondamentale per me e continua a esserlo. Ha fatto tante di quelle cose che ormai dovrebbe essere sfinito, eppure non è così. E’ fantastico essere un artista...».
    


Sulle mie labbra (Sur mes lèvres) (2001)
Tutti i battiti del mio cuore (De battre mon coeur s'est arrêté) (2005)
Il profeta (Un prophète) (2009)
Un sapore di ruggine e ossa (De rouille et d'os) (2012)

(Intervista di Mathilde Lorit, Rolling Stone - Marzo 2010)

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