genere, che alla sovraeccitazione maniacale seguisse il crollo depressivo. Un
periodo atroce. Nella fase precedente mi ero esaltato alla prospettiva di un
nuovo libro e di una nuova vita piena di promesse e di conquiste. Avevo
subaffittato il grazioso appartamento in rue du Faubourg-Poissonnière. Avevo
comprato una cassa bluetooth e sottoscritto un abbonamento a Deezer, due
cose che consideravo, stranamente, come le prerogative della mia nuova vita:
prerogative modeste, ne converrete, ben lontane dall’acquisto compulsivo di tre
Ferrari. E ora eccomi solo come un cane, senza una donna o impotente quando
per caso ne rimorchio una, con il colletto coperto di forfora, l’uccello squamato
dall’herpes, incapace di scrivere, senza più un briciolo di fiducia nel progetto di
libro che fino a qualche settimana fa mi sembrava così giusto, così necessario,
così fattibile: bastava, per cominciare, raccontare quello che mi stava
succedendo. Il problema è che non so cosa mi stia succedendo e non sono più in
grado di raccontare né di raccontarmi niente. Per vivere c’è bisogno di una
storia, io non ne ho più. La mia vita si è ridotta a un continuo andirivieni tra il
letto, dove macero in un sudore malsano, e il Rallye, dove passo ore a fumare
una sigaretta dopo l’altra, inebetito, sotto lo sguardo preoccupato della gentile
cameriera cinese, quella che per farmi piacere mi aveva detto che Yoga per
bipolari era un buon titolo. Ancora oggi non posso passare lì davanti senza un
fremito di paura. Per quasi due mesi mi sono a stento lavato e cambiato. Lo
scarico della vasca da bagno si è otturato e io non ho fatto niente per porvi
rimedio, a stento mi sono levato di dosso, per dormire, la mia divisa da
depresso: un informe pantalone di velluto a coste, un vecchio pullover pieno di
buchi e un paio di scarpe da ginnastica a cui ho tolto i lacci come se mettessi
già in atto le precauzioni che presto mi avrebbero imposto all’ospedale
psichiatrico. Non smetto di tremare, gli oggetti mi cadono di mano. Se metto a
posto i vasetti di yogurt nel frigorifero, mi sfuggono frantumandosi sul
pavimento della cucina. Finché si tratta dei vasetti di yogurt, pazienza, ma un
giorno ho provato a spostare di qualche centimetro la statuina dei gemelli che
avevo sistemato su una mensola come su un altare e ho fatto cadere anche
quella. Si è rotta. Sono rimasto per un’ora fermo a guardare sul parquet, tra i
miei piedi, quei due pezzi di terracotta che erano stati il simbolo segreto del
mio amore, e ho pensato che non c’era modo più eloquente per dirlo: stava
andando tutto in frantumi, niente si sarebbe mai aggiustato, era tutto finito.
L’articolo di Wyatt Mason
In quel periodo un giornalista e scrittore americano di nome Wyatt Mason è
venuto a trovarmi per scrivere un lungo articolo su di me per il «New York
Times Magazine». In un altro momento quella visita e l’interesse del «New York
Times Magazine» mi avrebbero fatto molto piacere perché da tempo aspiro a un
maggiore riconoscimento da parte del mondo letterario anglosassone. Ma in
quel momento non me ne importava niente del riconoscimento da parte del
mondo letterario anglosassone, ero messo troppo male per potermi rallegrare di
qualcosa. [...]
Il libro "Vite che non sono la mia", metteva in piazza l’intimità di parecchie persone,
ma prima di pubblicarlo ho fatto leggere il manoscritto a tutti gli interessati, i quali
hanno dato il loro assenso, cosicché il libro, che parla di avvenimenti tristi e anche
terribili, è stato scritto con serenità e rimane di gran lunga il mio preferito
perché mi ha dato l’illusione, condivisa da molti lettori, di essere un uomo
buono. Ma è un’illusione, dico ancora a Wyatt Mason. Non sono un uomo buono.
Mi piacerebbe esserlo, darei la vita e l’anima per esserlo perché ho un elevato
senso etico che mi porta a distinguere con chiarezza il bene dal male e non
colloco niente al di sopra della bontà, e invece no, ahimè, non sono buono e cito
a Wyatt Mason, quante volte l’ho citata, quante volte me la sono ripetuta, la
frase di san Paolo che chiede a Dio, probabilmente il solo a cui si possa fare
questa domanda: «Perché non compio il bene che desidero, ma il male che
odio?». È chiaro che, arrivato a questo punto, Wyatt Mason non considera più le
mie frasi come riflessioni o argomentazioni di un uomo responsabile, ma come
sintomi di un preoccupante stato di sconforto per il quale mostra una
compassione sincera. «È impossibile non accorgersi» scrive «che quest’uomo
estremamente cortese, attento al suo interlocutore, che si sforza di esprimersi
con precisione, che mi offre il tè e mi offre se stesso, per quanto gli è possibile,
in realtà soffre terribilmente». Si concludono così la prima parte dell’articolo e
la prima giornata che abbiamo trascorso insieme, perché trattandosi di un
lungo ritratto, otto pagine sul «New York Times Magazine», io e Wyatt Mason,
che era venuto a Parigi apposta, avevamo deciso che avremmo trascorso
insieme due giorni. Che fare nel secondo? Esaurito il fascino del monologo sul
divano simile a un cane depresso, l’idea era di uscire dalla forma statica e
convenzionale dell’intervista per passare a qualcosa di un po’ più vivace. Per
esempio, fare insieme una cosa che mi piaceva: la spesa al mercato, un pranzo
in un buon ristorante, una partita di calcio... Quando Wyatt Mason mi ha chiesto
se avevo qualche idea, l’ho portato al Rallye sperando che sarebbe rimasto
soddisfatto da questo cliché: il tipico caffè parigino dove lo scrittore parigino va
tutte le mattine a prendere un doppio espresso e un croissant, a osservare gli
altri clienti, in teoria a scrivere su un taccuino. Magari l’idea non era male, ma
ho voluto strafare. Mi sono lasciato prendere la mano dal ruolo dell’habitué e ho
rivolto alla cameriera cinese frasi di una giovialità stridente, che lei ha accolto
come se fossi impazzito. Wyatt Mason ha bevuto il suo caffè, pensieroso, poi mi
ha chiesto se mi piaceva Rembrandt. Penso che pochi rispondano di no a una
domanda del genere e difatti sì, Rembrandt mi piace. Come potrebbe non
essere, anzi, il mio pittore preferito uno che ha passato tutta la vita a scrutare
con ansia la propria faccia? Allora Wyatt Mason ha suggerito di andare a vedere
la mostra di Rembrandt che era stata appena inaugurata al museo Jacquemart-
André. Ho accettato, era sempre meglio di un ristorante da gran gourmet dove
non avrei potuto mandar giù non dico un antipasto ma nemmeno uno
«stuzzichino», come li chiamano, e non so perché ho proposto di andarci con il
mio scooter, invece di prendere il taxi. Più che la mostra di Rembrandt, su cui
non c’è molto da dire, il tragitto in scooter è il clou dell’articolo di Wyatt Mason.
Non è il primo, lo fanno già in molti tra parenti e amici, a descrivere la mia
guida sulle due ruote come prudente, forse un po’ troppo prudente, così
prudente da risultare pericolosa, con frenate brusche quando non ce n’è alcun
bisogno e curve prese con una lentezza tale che lo scooter minaccia di inclinarsi
su un lato, inclinarsi al punto da cadere sotto il peso della sua inerzia. Così
sballottato, sballonzolato, Wyatt Mason, dietro di me, è sempre più teso.
Nell’articolo rievoca il rumore che fa la parte anteriore del suo casco urtando a
ogni frenata contro la parte posteriore del mio, racconta di aver tentato in tutti
i modi di evitare di urtare con la parte anteriore del suo casco contro la parte
posteriore del mio e alla fine scrive una cosa stupefacente, che ancora più di
tutto il resto mi ispira una grande simpatia per lui: «Sarebbe stato molto più
facile se fossimo stati amici. Non sarei stato costretto a irrigidirmi per
mantenere la distanza tra noi, avrei potuto tenermi a lui, non è certo il
comportamento che ci si aspetta da parte di un giornalista nei confronti della
persona che è venuto a intervistare, ma mi dico che in fondo è proprio quello
che avrei dovuto fare: abbracciare quell’uomo così infelice».
Il bambino murato vivo
L’articolo di Wyatt Mason non si chiude con questo brano, notevole sia dal
punto di vista letterario che da quello umano, ma con le frasi: «Per quanto la
perdita, la violenza e la pazzia siano per Emmanuel Carrère quasi
un’ossessione, i suoi libri si avviano sempre verso una conclusione in cui appare
all’orizzonte uno spazio di gioia. La loro forza è che sono scritti da uno che
conosce bene il prezzo di quella gioia». Rileggo queste righe oggi, mentre mi
avvio verso la conclusione del libro che sto scrivendo, e provo a far apparire
all’orizzonte uno spazio di gioia. Ci provo, avanzo a tentoni, non so ancora che
cosa troverò ma credo sia possibile. La gioia, o quanto meno la possibilità della
gioia, è tornata nella mia vita. L’amore, o quanto meno la possibilità dell’amore,
è tornato nella mia vita. Se me lo avessero predetto tre anni e mezzo fa, quando
abitavo in rue du Faubourg-Poissonnière, non ci avrei creduto e avrei trovato
questa predizione addirittura offensiva tanto era fuori luogo. Ero sicuro che la
tristezza sarebbe durata per sempre e che qualora mi fosse capitato di scrivere
ancora qualcosa, eventualità a cui credevo sempre meno, lo avrei fatto per dire
che la tristezza sarebbe durata per sempre, che ci sarei rimasto murato vivo in
eterno. Circa vent’anni fa mi sono imbattuto in un articolo di cronaca
pubblicato su «Libération» che mi ha segnato per tutta la vita: i genitori di un
bambino di quattro anni portano il figlio in ospedale per un’operazione di
routine. Deve uscire il giorno dopo. Ma l’anestesista commette un errore, e il
bambino, nonostante settimane di cure disperate, resta sordo, muto, cieco e
paralizzato. Irreversibilmente, definitivamente. Quando l’ho letto sono rimasto
annichilito dal terrore. Niente mi ha mai fatto così male. Non riuscivo più a
pensare ad altro, non riuscivo più a pensare ad altro che al risveglio di quel
bambino. All’istante in cui ha ripreso conoscenza, al buio. All’inizio è spaventato
ma in cuor suo è ancora convinto che lo spavento passerà presto. I suoi genitori
non devono essere lontani. Accenderanno la luce, gli parleranno. E invece non
succede niente. Non una luce. Non un rumore. Cerca di muoversi, ma non ci
riesce. Di gridare ma non sente neppure la sua voce. Forse si accorge che lo
toccano, che gli aprono la bocca per farlo mangiare. Forse lo nutrono con le
flebo, l’articolo non lo dice. I genitori, il personale dell’ospedale sono accanto al
letto, stravolti dall’orrore, ma lui non lo sa. Impossibile comunicare con lui,
impossibile raggiungerlo. Non è in coma. Sanno che è cosciente, che dietro quel
faccino cereo, contratto, dietro quelle pupille che non vedono c’è un bambino
murato vivo che sta urlando di terrore in silenzio. Nessuno può spiegargli la
situazione, e chi ne avrebbe il coraggio? Nessuno può immaginare cosa succede
nella sua testa, come si racconta quello che gli sta accadendo. Non ci sono
parole per una cosa del genere. Io non ho parole. Io, di solito così facondo, non
trovo il modo di esprimere ciò che questa storia smuove dentro di me. Ma
smuove qualcosa che ho nel profondo, qualcosa che è la sostanza della mia
stessa storia e che mi spinge a credere che la realtà della realtà, la sostanza
delle cose, l’ultima parola non sia lo spazio di gioia inalienabile verso cui a detta
di Wyatt Mason si avviano tutti i miei libri, ma l’orrore assoluto, la paura
inenarrabile di un bambino di quattro anni che si risveglia nel buio eterno.
(tratto da Yoga, di Emmanuel Carrère. 2021 Adelphi, trad. di Lorenza Di Lella, Francesca Scala)